giovedì 2 aprile 2020

Louis-Ferdinand Céline, "Viaggio al termine della notte". L'Ulysses dei disgraziati




“Viaggio al termine della notte” non si risparmia niente: un grido d’angoscia costante dal primo all’ultimo rigo, ma senza un briciolo di autocompiacimento, senza falsi moralismi, senza chiedere al lettore quella compassione che nemmeno il protagonista, Ferdinand Bardamu, nutre verso sé stesso. È una vita buia come la notte, e il buio che sperimenta il protagonista è scosceso, inarrivabile: poco prima della conclusione, Ferdinand, nel confronto/scontro con un personaggio chiave, Madelon, sostiene che lei non ha la forza di scendere dove si trova lui: “c’era troppa notte per lei, intorno a me”.
Bardamu, oltre ad essere l’alter ego letterario di Céline, ha un doppio anche nel romanzo: Leon Robinson. Entrambi appartengono alla genìa dei “disgraziati”, e la loro parabola è simile ma asimmetrica: dagli orrori della Grande Guerra, che lascia ferite nell’animo più nefaste di quelle del corpo, all’impossibile tentativo di dimenticare nei bordelli di second’ordine, poi nell’Africa Equatoriale, in improbabili e grottesche avventure ai limiti della sopravvivenza, al miraggio della Grande Mela, dove si compie il rito della solitudine in mezzo alla folla; per tornare, infine, in Francia, per cercare inutilmente di riappropriarsi della propria vita.
Non c’è solo la notte, anche il viaggio, ed è l’unico modo per sopportare il dolore e la fatica dell’esistenza-notte. Ferdinand non è in grado di mantenere un impiego o di sostare in un luogo per più tempo: le sue partenze sono sempre improvvise, e non resta, al lettore, che tentare di seguirlo nei suoi deliri e nei pellegrinaggi della gente sconfitta. Il paragone con Leopold Bloom dell’Ulysses sembra plausibile, a patto di non rivendicare nessuna preminenza dell’uno verso l’altro. Anche il dublinese attraversa la sua notte personale, che però dura un arco di tempo ragionevole da un lato – appena 24 ore – irrazionale dall’altro, perché infarcito da flussi di coscienza e folli sperimentalismi.
La lingua di Céline è uno stranissimo e originale mix tra linguaggio di gergo, qui l’argot, e momenti di introspezione psicologica di finezza estrema (con annesse enormi difficoltà di resa in altre lingue). Bardamu per tutto il suo viaggio non fa che distruggere uno ad uno tutti i pilastri dei benpensanti, con annesse ipocrisie e sventramento autentico della patina di rispettabilità: tutti, nel privato, secondo la filosofia di Ferdinand, sono sozzi e corrotti, e l’essere umano non è che un “sottuomo zoppicante”. Egli però subisce, quasi contro la sua volontà, e contrariamente a Robinson, un’evoluzione, Infatti, tornato dalla guerra, Bardamu completa gli studi di medicina, ma per un bel pezzo non esercita la professione, e quando lo fa, la sua situazione non migliora affatto, perché si mette a curare altri disgraziati come lui. Solo verso la fine del romanzo, l’alter-ego letterario, Robinson, che lo ha seguito come un’ombra in tutti i viaggi, torna proprio quando Bardamu ha finalmente trovato una semi-stabilità come direttore di un sanatorio per alienati. Il finale, drammatico, rivelerà il paradosso della latente asimmetria tra i due personaggi, e, in una scena tra le più toccanti della letteratura – proprio perché svuotata di qualunque significato che vada oltre le crude parole –, raggiunge un’intensità espressiva che sembra anelare al non detto, all’impossibile riscatto del popolo dei reietti della società, e persino ad una forma laica di pietà. Ed è al tempo stesso una scrittura di denuncia della disumanizzazione crescente nella società tra le due Guerre, messaggio valido per i tempi a venire, non esclusi i presenti.
AFC


Louis-Ferdinand Celine, Voyage au bout de la nuit, 1932, trad. it. di A. Alexis, Dall'Oglio, Milano, 1962. Di questo capolavoro esistono altre traduzioni, come quella, classica,di Ernesto Ferrero, e quella datata di Gian Dauli.


domenica 15 marzo 2020

Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace: il segreto dell’acqua e il motore immobile


Esiste un aggettivo molto usato nella critica letteraria per connotare opere ponderose, piene di pagine e di storie e di parole: “torrenziale”: nel caso di La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, mai termine potrebbe essere più adeguato, perché l’acqua è il dominus, al tempo stesso benigno e maligno, che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina. Acqua che ristora e rigenera come un liquido amniotico, nelle estati senza tempo in cui si immerge il protagonista, Ivo Brandani; acqua che, all’opposto, tracima e inonda, sovrapponendosi e sostituendosi al divino, sentito sempre come assente o inesistente.
Il romanzo adotta una tecnica narrativa originale e funzionale: durante un viaggio di ritorno dall’Egitto, il sessantanovenne ingegner Brandani rivive la sua esistenza a ritroso. Dalle ultime esperienze, narrate nei primi capitoli, si retrocede alla giovinezza fino alla prima infanzia, nell’immediato e complesso secondo Dopoguerra. Il protagonista si spinge fino all’estremo limite possibile della memoria, e l’ultimo suo ricordo è quello del passo sul pavimento, compiuto verso i tre anni, che sanciva la sua guarigione da una malattia piuttosto seria. Ogni regresso verso il passato è accompagnato da riflessioni che riportano la macchina del tempo al momento iniziale.
Al lettore il compito di ricostruire i pezzi di mosaico sparsi apparentemente in disordine, in realtà con uno schema narrativo ingegnoso. Ivo Brandani è perseguitato da un Edipo devastante nei confronti del padre (chiamato, archetipicamente, “Padre”, senza articolo determinativo), che impersona, in apparenza, l’anti-Ivo: sicuro, autoritario, nutrito di poche ma inflessibili idee, alle prese con l’ingombrante eredità del fascismo. Invece Ivo cresce insicuro, portando all’esterno il suo conflitto con Padre, imbevuto di divieti che man mano che cresce infrange tutti, uno per uno, non senza sofferenze e inquietudini. Ma la differenza con Padre, al quale Ivo sente e si sforza di non assomigliare, ma al tempo stesso teme come nel peggiore degli incubi di assomigliare, è fondamentalmente una: lui non ha fatto la guerra, è vissuto interamente in tempo di pace, mentre Padre ha fatto la guerra, sperimentando uno stato cui l’uomo post-bellico non ha avuto accesso. Cosa significhi vivere in tempo di pace lo capiamo nei dolorosi accessi ai flussi di coscienza di Ivo, nella piattezza degli ideali, nel rifiuto della profondità in nome di un non ben precisato progresso.
Non siamo d’accordo con quanti vedono in lui una persona debole, sostanzialmente un fallito, né sul fatto che le cinquecento pagine di romanzo non abbiano una trama vera e propria. C’è un altro snodo importante, a nostro avviso, ed è quando Ivo ragazzino, considerato spesso un vinto dai coetanei in base a precise regole gerarchiche di gruppo, reagisce ad un prepotente, sorprendendolo e atterrandolo. La collocazione dell’episodio quasi a fine romanzo indica l’importanza di un ricordo che, pur non avendogli schiuso le porte della sicurezza in sé, gli ha insegnato che nulla è predeterminato e, entro certi inevitabili limiti, un barlume di libero arbitrio sopravvive.
Oltre al conflitto con Padre, nella sua vita si pone un brusco cambio di indirizzo, quando lascia la facoltà di filosofia per diventare ingegnere edile. La motivazione che dà a sé stesso in quel momento appare sorprendente: progettare un ponte è una forma di filosofia viva, realizzata. L’archetipo del ponte attraversa tutto il romanzo: ponte fra acqua e terra, tentativo dell’homo faber di assoggettare il dominus-Acqua, che poi si vendica inondando. E però Brandani, in una gita al Firth of Forth scozzese, si innamora della bellezza del ponte e decide di diventare ingegnere, salvo poi, alla fine, interrogarsi sull’insensatezza di questa scelta. Per questo, e per il conflitto irrisolto con Padre, dovremmo considerarlo fallito? Non più di tanti altri personaggi di romanzo da Des Esseintes di Huysmans a Gonzalo Pirobutirro di Gadda. Una traiettoria esistenziale non si può giudicare per le vere o presunte sconfitte nel mondo-di-fuori, ma per lo sviluppo interiore cui perviene il soggetto. Nonostante, tecnicamente, il romanzo sembri percorso da una fissità insensibile esemplificata dal concetto di Motore Immobile, nel caso di Ivo Brandani, il retrocedere all’infanzia rivela l’impossibile desiderio di rifugio nel ventre materno, dove trovare, ancora una volta, l’Acqua Primordiale, arricchito (o impoverito) dall’incontro-scontro con la realtà inesorabile.
AFC

Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano, 2013




sabato 7 marzo 2020

Andrea Tarabbia, "Madrigale senza suono": nasce prima il genio o il dolore?

In questo romanzo, vincitore del Premio Campiello 2019, Andrea Tarabbia scende negli abissi della mente umana, e costringe il lettore a interrogarsi sui processi che uniscono il genio alla follia, la disperazione al talento. La narrazione si mette in moto attraverso il ritrovamento di un manoscritto piuttosto ambiguo, apparentemente redatto da un servitore del grande compositore Carlo Gesualdo principe di Venosa. L'autore del rinvenimento è un mostro sacro della musica moderna, Igor Stravinskij. Inizia così una doppia storia: da un lato osserviamo la discesa di Carlo Gesualdo nell'oscurità del dolore, inesorabile e insondabile, e nella potenza della sua musica; dall'altro seguiamo le reazioni di Stravinskij che diventa una sorta di viaggiatore nel tempo, arrivando a sovrapporre la sua estetica musicale a quella di Gesualdo attraverso il Monumentum pro Gesualdo, brano strumentale espressamente scritto come omaggio al Principe di Venosa.
Il lettore è avvinto alle pagine del romanzo senza una pausa: il ritmo travolgente di Tarabbia porta ad esplorare l'evento-chiave della vita di Gesualdo, l'uxoricidio commesso in nome di una concezione arcaica dell'onore, che da quel momento avvelena la sua e le altrui vicine esistenze. Eppure, nelle convulse pagine musicali che Gesualdo prende a scrivere, sembra voler emergere una sorta di arcana  e impossibile liberazione dal crimine commesso, che però può avvenire soltanto bruciandosi nel fuoco stesso che lo consuma. Non c'è purificazione o sublimazione, soltanto un convulso agitarsi dentro il labirinto della propria mente. 
Eppure, sembra emergere dalle pagine del romanzo un interrogativo inquietante: che rapporto esiste tra dolore e genio? Gesualdo oltrepassa le Colonne d'Ercole della musica fino ad allora conosciuta, scrivendo brani visionari in anticipo di secoli, in quanto trasfonde nella parola intonata il tormento che lo attanaglia dopo il duplice efferato omicidio (insieme alla moglie, l'amante)? Oppure è un personaggio tormentato di per sé, e la sua capacità di scrivere musica e di dare alla parola intonata un valore espressivo mai ascoltato prima preesistono alle drammatiche vicende che lo coinvolgeranno? Detto in altri termini, viene prima il genio o il dolore?
L'espediente di affidare la narrazione ad una improbabile cronaca redatta da un servitore quasi invisibile costituisce uno degli enigmi apparentemente insoluti dell'opera, e gli stessi dubbi di Stravinskij lo confermano. 
Il finale non può essere thriller nel vero senso della parola, perché sappiamo già dall'inizio che Maria d'Avalos morirà; addirittura, un musicista o musicologo, avvezzi alla frequentazione gesualdiana, conoscono alcuni dettagli sapientemente disseminati da Tarabbia (insieme a numerose e puntuali citazioni musicali sia di Gesualdo che di Stravinskij). Eppure, la storia avvince lo stesso, e parecchio. Secondo noi il motivo risiede proprio nell'interrogativo cui l'autore costringe il suo lettore: non si può, infatti, smettere di esplorare i confini che separano la ragione dalla follia, il dolore dal genio. E, come tutti i romanzi cosiddetti "a tinte forti", sono proprio alcuni dettagli raccapriccianti a farci sorgere una sorta di "dissonanza cognitiva": separare il Gesualdo sublime musicista dal Gesualdo assassino non è operazione semplice, né è detto che sia questa la chiave di lettura dell'opera. Anzi, potrebbe anche essere l'esatto contrario, ma questo è un processo mentale richiesto al lettore. Come ogni romanzo profondo e significativo, il suo senso va colmato attraverso la lettura e la riflessione.
AFC

tarabbia andrea - madrigale senza suono

Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri, Torino, 2019

mercoledì 5 febbraio 2020

Santi Calabrò - Il Parsifal pacifista di Graham Vick



Santi Calabrò


Il Parsifal pacifista di Graham Vick


Da anni Graham Vick si misura a Palermo con Wagner: offerto dopo la Tetralogia dispiegata dal 2013 al 2016, il Parsifal che ha inaugurato la stagione 2020 del Teatro Massimo ha quindi costituito una sorta di coronamento. Le regie di Vick hanno un segno riconoscibile, con riferimenti all'attualità che circolano da un’opera all’altra: la guerra dei mondi e delle religioni che cova e spesso esplode dall'inizio di questo millennio aveva ispirato la conclusione del Crepuscolo degli Dei (dove l'incendio del Valhalla è causato da jihadisti suicidi provvisti di giubbotti esplosivi), e tale riferimento pervade per intero questa ultima produzione. La redenzione – tema centrale del Parsifal – si declina nell'auspicio di una laica pacificazione mondiale, con una dimensione canalizzata in senso umano piuttosto che mistico.
In generale l'attualizzazione e le trovate originali di una messinscena operistica sono operazioni che in prima battuta si misurano con la dimensione reale: con la lettera dei dati dell'opera, amplificati o forzati, e con la sostanza dei suoi effetti, che ne dovrebbero uscire potenziati. Ma la stessa attualizzazione può puntare più in alto, cioè al contenuto ideale dell'opera, postulandone una tale efficacia metatemporale da favorire il dispiego di mezzi che, legandosi all'orizzonte dello spettatore, gli rivelino in modo più vivido il plesso di forze che muove un dramma musicale. Nel teatro di Wagner reale e ideale sono però da intendere nell'accezione particolare che acquistano per un verso nella sua stessa teorizzazione, per un altro verso nei problemi di allestimento. A livello della complessa teoria wagneriana, la musica, unica arte che esprima il sentimento universale, si giova del mimetismo di altri mezzi (parola e gesto) come tramiti verso il noumeno che si manifesta solo musicalmente; in questo quadro, dove lo stesso dramma non segue necessariamente una logica di causa ed effetto, la vera sede del significato resta sempre la musica. A mettere in pratica tali affascinanti ma traballanti premesse, si aprono possibilità feconde proprio in ordine alle crepe della teoria: se non ve ne fossero lo spettacolo wagneriano avrebbe una sola possibilità di rappresentazione, cioè non sarebbe arte ma tesi filosofica. E invece le regie wagneriane possono andare a segno con varie impostazioni, da un prosciugamento dei gesti al mimetismo spinto, fino a un simbolismo che metta in rilievo proprio la sovrabbondanza feconda di significato della parte musicale contro la direzione semantica più netta ma più limitata della parola e del gesto.
In questo Parsifal di Vick, la linea e i mezzi utilizzati danno risultati diversamente centrati secondo l’occorrenza drammaturgica che, in quanto scandita dai dati combinati dell’intreccio e della musica, risponde alle ragioni di un simbolismo eccedente ma direzionato, rispetto al quale la musica può sovraccaricare ma non mentire. Gli eventi reali del Parsifal e quelli narrati sono chiaramente evocati da Vick, spesso con crudo realismo, ma in subordine alla torsione compiuta in via prioritaria nella costellazione tematica del Parsifal. Ancora una volta una scena spoglia ci mostra le quinte (belle?) del Teatro Massimo. In mezzo al grande piano inclinato su cui si svolge l'azione scorre una lunga tela scorrevole, sulla quale vengono proiettate le ombre di mimi che agiscono da dietro, mentre i personaggi dell'opera stanno per lo più davanti alla tela. I cavalieri hanno la divisa dei marines americani, Kundry piomba in scena alquanto islamizzata, mentre in mezzo alle divise Amfortas, il sofferente re del Graal, qui senz’altro redentore da guarire prima che da redimere, è vestito (si fa per dire) come un Cristo: la sua ferita è una vistosa piaga nel costato e sulla testa non manca la corona di spine. Parsifal all'inizio si presenta proprio come uno che passa per caso e uccide un cigno, ma quando nel terzo atto ha assunto compiutamente il suo mandato appare tutto nero come un combattente dell'Isis, e la lancia sacra ovviamente non può bastare: ha anche un mitra. A compensare un eccesso di cattiva coscienza dell'occidente, che sembrerebbe permeare le allusioni alla jihad di Vick, lo spettacolo regala segni di una cattiva coscienza più universale, come quando dietro la tela vediamo soldati che sgozzano donne incinte: chiara allusione al terrorismo islamico.
La tela di Vick – mezzo che riassume sia le punte positive che alcuni lati discutibili dell’allestimento – svolge ottimamente il suo lavoro quando si tratta di commentare il monologo di Gurnemanz. Sullo sfondo scorre buona parte di quello che viene raccontato, compreso l’“incidente” di Amfortas che va ad affrontare Klingsor e, distratto dal cedimento alla sensualità, rimedia la sua ferita (dal quale derivano sofferenza atroce e sbandamento dei cavalieri), perdendo pure la lancia sacra. Ma quando sulla musica del terzo atto – che dalle rarefazioni mistiche del venerdì santo passa a evocare con un incedere pesante il funerale di Titurel – Vick proietta tutti gli orrori del mondo, l’intenzione ideologica contrasta troppo con la drammaturgia musicale wagneriana. L’opposizione di una controscena invasiva diventa realtà troppo acerbamente provocatoria non per i suoi contenuti, ma in primo luogo rispetto al processo dell’assunzione di identità salvifica di Parsifal, che tutto quanto precede ha portato ormai a stadio avanzato. In questo senso appare parimenti fuori luogo non il singolo segno scenico, ma proprio l’ambizione a un totale ribaltamento dei valori: le fanciulle-fiore col pareo funzionano; i bambini di tutte le etnie apparentemente morti che giacciono al posto delle fanciulle sul giardino di Klingsor ormai appassito, e che poi si rianimano grazie a Parsifal come fiori di speranza per il mondo, sono una delle idee più poetiche, efficace a illuminare gli assunti di redenzione dell’opera per il tramite degli assunti specifici della lettura di Vick. Che però poi tornino in scena le stesse signorine, con lo stesso pareo, e soprattutto che si votino al baby sitting, non distingue più fiore da fiore. E quando anche Kundry diventa una tata, nel Parsifal ripensato da Vick, si aggiunge solo un corollario al teorema.
Passando per eccessi di questo tipo nei finali di atto Vick è efficace, ma purtroppo anche coerente a suo modo! Nel Finale del primo atto i cavalieri (i marines) bevono il sangue del Graal e poi si tirano il sangue dal proprio braccio con sofferenza. L’invenzione spettacolare unisce l’effetto e la sottigliezza teologica rispetto al sincretismo di declinazioni della cristianità che pullula dietro l’edificio culturale del Parsifal wagneriano. Ma proprio perché il male e il dolore in Wagner si intrufolano dappertutto, dal sacrificio eucaristico alla sessualità, si fatica a veder poi risolvere in irenismo laico senza residui un preteso “messaggio” dell’opera. Nell’universo di Wagner e della sua estrema opera-mondo l’eros è fratello, se non scaturigine, del male, e una castità che se la intende con la grazia divina lo redime: piaccia o non piaccia a Vick, che invece nel finale dell’opera rimuove il Graal e fa di Parsifal un profeta del dialogo oltre la religione più che interreligioso.
Il messaggio di Vick è chiaro, ma il Parsifal rilutta ad adattarvisi: forse il problema di fondo di questa regia, a confronto del Ring, non è che qui manchi la vera ispirazione, ma che in Parsifal l’eroe non muoia, negandosi quel compimento estremo che preclude (in modo da sempre benefico per l’arte e soprattutto per la musica) lo scioglimento in tesi di tutti i grumi dialettici. La vittoria dei redentori invece sembra porre a Vick un’esigenza di “motivazione”. L’unico funerale, quello di Titurel, è non a caso enfatizzato, perché in questo quadro porta via il male. Presentando il padre di Amfortas vestito come un mandante internazionale, un colletto bianco della guerra, la sua morte per Vick non può che essere provvidenziale. Ma a buttarla troppo in politica o ideologia Wagner ci perde sempre: non solo è troppo semplificato, ma finisce per essere superato dalla realtà, che spesso va oltre. Nessuna trovata o provocazione di Vick può reggere il confronto con Trump che presenta unilateralmente una proposta di pace con la pompa di un accordo raggiunto.    
Nella parte musicale, il direttore Omer Meir Wellber porta l’orchestra del Massimo a un buon livello tecnico e a un suono credibile per Wagner, anche se preferisce (troppo) profilare ogni piccola cellula e si applica meno a cogliere il profilo di insieme della frase wagneriana. Kundry è raffigurata con la ideologia semplificata di Vick nel suo transito da donna oscura in niqab (simbolo che denota fatti precisi e non raccoglie tutti i misteri e le stratificazioni del personaggio) a Maria Maddalena servizievole e finalmente in comunione con il suo castissimo redentore, con la seduttrice materna e freudiana relegata a ponte modulante. Catherine Hunold offre a questo personaggio una resa più lirica che tagliente, mentre Julian Hubbard, nel ruolo del titolo per un’indisposizione del tenore titolare, canta in modo più adeguato al complesso del percorso, ma anche lui è più convincente in senso poetico che eroico. Si direbbero entrambi ispirati dalle buone intenzioni della messinscena! John Relyea, interprete di Gurnemanz, offre un’interpretazione profonda e meditata, all’altezza dell’intero e delle pieghe del suo ruolo di narratore e protagonista. Buono il resto del cast; da Tómas Tómasson (Amfortas), Alexei Tanovitski (Titurel) e Thomas Gazheli (Klingsor) arrivano anche immedesimazioni attoriali particolarmente persuasive. Resta discutibile, per l’effetto acustico, che una parte degli interventi del coro provenga da casse amplificate: un prezzo eccessivo per vedere lo sfondo del palcoscenico come ancoraggio visivo al reale. Lunghi applausi e qualche accenno di contestazione al regista.














Foto di scena  a cura di © Rosellina Garbo e © Franco Lannino




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lunedì 18 novembre 2019

Una conversazione tra le due sponde del Reno. L'arte di Michel Dalberto


Una conversazione tra le due sponde dell Reno
L'arte di Michel Dalberto

Santi Calabrò


La presenza di Ravel in un concerto pianistico è un fatto talmente diffuso da non connotare una particolare inclinazione dell’esecutore, sia esso francese o d’altra provenienza. Nella prima metà del Novecento l’artefice maggiore dell’inserimento stabile della musica di Debussy e di Ravel nel repertorio pianistico fu un tedesco, Walter Gieseking, e fra gli esecutori più celebrati di ieri e di oggi non mancano i non-francesi. D’altro canto, spesso gli artisti francesi “sconfinano” con grandi risultati su tutti i terreni, senza certo limitarsi ad essere specialisti di arte transalpina. Esemplare il caso di Michel Dalberto, che ha una carriera, una discografia e una reputazione tali da accreditare un’immagine di interprete aperto alle diverse declinazioni del corpus della grande musica pianistica, perlomeno a quelle maggiori: Dalberto esegue correntemente sia il repertorio classico e romantico di area austro-germanica sia quello francese (senza farsi mancare incursioni in Russia). Eppure, nel recital tenuto a Messina nella stagione della Filarmonica Laudamo, proprio la particolare congenialità mostrata con i brani di Ravel (a partire dall’esemplare esecuzione della Sonatine), incastonati tra Schumann e Beethoven, può costituire lo spunto per un approfondimento che, partendo dall’arte esecutiva di Dalberto, si allarga a considerazioni più generali sulla musica e sull’interpretazione. 
Le pagine di Ravel hanno concluso la prima parte di un concerto aperto con la quintessenza del romanticismo fantastico, i Phantasiestücke op12 di Schumann, seguiti da tre dei Miroirs (Oiseaux tristes, Alborada del gracioso e La Vallée des cloches) e dalla Sonatine di Ravel, per proporre nella seconda parte una delle opere maggiori di quello che Adorno definiva il periodo “integro” – che significa anche il più radicalmente classico – di Beethoven, la Sonata op. 57 “Appassionata”. A considerare nell’insieme questo programma, la Sonatine di Ravel sembra assolvere a una accorta funzione di termine medio tra concezioni opposte della musica e dell’esperienza del suo ascolto: una scelta da manuale di impaginazione del recital – forse la migliore, dopo qualche dubbio, fra altre possibili con gli stessi ingredienti (il programma stampato prevedeva l’inversione delle due proposte raveliane). Al centro di quella sorta di esposizione museale costituita dal programma di un concerto, la preziosa Sonatine può apparire in questo caso come un’elegante e smaliziata stampa neoclassica, da contemplare nel corridoio di collegamento fra sale dove campeggiano quadri e poderosi affreschi ben più adatti ad attirarci nei loro gorghi profondi. Fantasticando, ma non troppo, il ruolo della Sonatine forse sarebbe stato proprio questo, con lo stesso programma eseguito da Wilhelm Kempff. Oppure, in tempi meno lontani, da Alfred Brendel. O persino, al di fuori da una pronuncia austro-tedesca (ammesso che ciò sia veramente possibile quando si parla di pianoforte), da Richter o da Ciccolini. Invece, nella mostra allestita da Dalberto, la Sonatine rilutta a un ruolo prezioso ma vicario: perché l’esecuzione di Dalberto ne afferma una intensa e coinvolgente dimensione artistica, e perché la stessa Sonatine diventa l’ideale centro di osservazione per un’estetica interpretativa, quella di Dalberto, che riesce così duttile nel restituire mondi diversi non sulla base di un eclettismo camaleontico, ma partendo da un solido punto di osservazione. L’interpretazione può avere a che fare con la verità, giusta l’elegante e fulminante tesi di Luigi Pareyson, solo a condizione che sia storica e personale. Solo ciò che è personale può essere anche universale! Altrettanto chiaramente, ascoltando Dalberto, si capisce che l’interpretazione musicale va a segno se i suoi fondamenti hanno una connotazione culturalmente dominante: che in questo caso è profondamente francese.
Come tutte le grandi nazioni che delineano l’insieme della cultura occidentale, la Francia non è un monolite ma un insieme di stratificazioni dalla quale prendono figura nervature inconfondibili. In questo senso, si potrebbe dire che il rigoroso apprendistato di Ravel, la sua profonda conoscenza del passato musicale e la sua inconfondibile cifra stilistica possono assurgere a emblema dei processi di sedimentazione culturale, ripensamento e riformulazione creativa. Anche la riflessione sulla musica, nella Francia del secolo scorso, presenta degli apici in cui letteralmente il pensiero “prende figura”: in questo ambito Vladimir Jankélévitch ha un posto eminente. Impossibile non fare i conti, fosse pure per opporvisi, con la sua critica intransigente alle tradizionali metafore della musica come “linguaggio”, “discorso” e – particolarmente invisa – “sviluppo”.  Si sentono qui risuonare e confluire anche altri temi: l’impressione – termine decisivo della cultura francese, soprattutto se non lo si limita alla pittura – non intende portare alla luce la vita interiore come nesso organico e come espressione, ma punta a esprimere la soggettività dissolvendola verso l’esterno (qualora si volesse dare una connotazione unitaria al postromanticismo francese, sarebbe propriamente questa). Restando a una filosofia del tempo musicale, Jankélévitch si distingue da posizioni come quella del tedesco Adorno, mentore di un “ascolto responsabile” (concetto che si lega all’idea di Beethoven come centro della musica in forza della sua coerenza organica e ideale) o, nella stessa area di pensiero francese, di Lévi Strauss, per il quale la musica è una macchina “per sopprimere il tempo perché instaura un regime temporale alternativo. Jankélévitch sostiene di contro che la “visione retrospettiva” diffusamente postulata come necessaria a cogliere la struttura musicale sia un inganno, derivando da una presunzione intellettuale che non coglie la preminenza e la superiorità del “puro ascolto”, del lasciarsi andare alla processualità temporale che afferra la musica come una realtà “vera”, dotata di una fluidità ben diversa dagli irrigidimenti del linguaggio. In questo senso Jankélévitch si muove dunque da e verso Bergson: il flusso temporale, con un ascolto naturalmente sincronizzato, stravince sulla struttura (che si disvela a un ascolto retrospettivo). A ben guardare, e pur assegnando ai termini il peso diverso che ogni contesto conferisce, si scorge in questo movimento di pensiero il riproporsi filosofico-musicale di una dicotomia che pervade, a vari livelli e in varie epoche, tanto la costruzione della musica quanto la teoria, che distingue da un lato una temporalità additiva, tale da indurre un ascolto cumulativo, dall’altro un tempo lineare dove gli anelli della catena sin dall’inizio generano consequenzialità. Nell’uno e nell’altro caso si tende ad associare la forma della musica sia all’esperienza dell’ascolto sia al modo di interpretarla; quando tuttavia le teorie spingono il pedale su queste derivazioni, proprio mentre presumono di chiudere il cerchio trionfalmente, smarriscono il contatto con la realtà. Né la musica, né il suo ascolto, né l’interpretazione si lasciano infatti ridurre a uno solo dei due corni, ma volta per volta si sostanziano di misture diverse di temporalità fluida e di solida struttura, di impressioni e di espressioni, di trasmutazioni e di rispecchiamenti.
La ricchezza di stimoli da cui muove la cultura musicale di Dalberto, formatosi in un ambiente eccezionalmente fecondo, restituisce una inclinazione prevalente verso l’attimo e verso l’additività, una predisposizione quasi fisica al fluire naturale della musica, fatto di momenti reciprocamente aggregati anche quando la trama sottostante presenti un filo strutturale ad ampia campata. A una logica troppo predeterminata Dalberto tende a preferire il respiro dei singoli tasselli, rigorosi nell’articolazione e nella individuazione dei profili ma aperti a nuances “atmosferiche” dalla calibratura persino estemporanea, dettate anche dalla risposta della materia sonora, dal rapporto fisico con lo strumento. Eppure, una logica connettiva non manca: con discrezione, quasi scaturente in presa diretta con la densità dell’ordito e con l’incanto del timbro. Il primo movimento della Sonatine di Ravel – dove lo schema formale sonatistico non ha ovviamente la tensione processuale di Beethoven ma neanche quella di Brahms, prestando la sua forma standardizzata a temi di pronuncia decadente – ne risulta trasfigurato per via di momenti nello stesso tempo puntuali e consequenziali, arricchiti dalla cura del rimandare l’uno all’altro. Invitando non certo a un “ascolto retrospettivo”, e piuttosto porgendo un regalo dopo l’altro per un ascolto sempre orientato al presente e all’immediato futuro, Dalberto cura il filo prezioso delle voci interne, magari evidenziate solo dall’accenno di un timbro diverso o da una minima inflessione, che di presso possono diventare linea principale (come nel contralto subito prima della ripresa), oppure condurre un loro discorso concomitante ma autonomo. In tal modo l’esecuzione supera e cuce le nette scansioni fraseologiche delineate dalla linea principale, instaurando un flusso continuo immerso in un’agogica palpitante e in un senso timbrico fuso con la verticalità (dove l’accordo tende a sua volta all’autonomia, a diventare significativo di per sé e padrone ultimo, che può delegare alle linee i mandati dell’aggregazione). Se il primo movimento è come un nastro che srotola i suoi tesori, bellissimo è anche il tempo centrale, Mouvement de Menuet, a partire dall’attacco in cui il gioco contemporaneo di due eventi disegna un arabesco di linee non gerarchizzate ma paritariamente dipanate. La brillante esecuzione del movimento finale, in linea con le premesse, chiude la prima parte del concerto, dove la Sonatine – sommata agli splendori sonori dei precedenti Miroirs – restituisce una cifra di rara se non unica capacità di far convivere le diverse inclinazioni raveliane. A rigore l’accoppiata Miroirs/Sonatine proporrebbe la contrapposizione di impressionismo e neoclassicismo, ma il Ravel di Dalberto risulta allo stesso tempo sia sfaccettato nelle sue anime che unitario. Soprattutto, è unitario nel sollecitare un’esperienza di ascolto fluida, come scansione di attimi connessi.
Dopo l’intervallo, è il momento della beethoveniana op. 57 (di Schumann riferiremo dopo). Un pianista che restituisce con tanto giudizio la forma e la trama della Sonatine di Ravel non può non essere un classicista inappuntabile. Ma se si guarda con attenzione al repertorio classico di Dalberto, sorge il sospetto di una predilezione trasversale all’interno della “famiglia” stratificata e poderosa che si definisce “stile classico viennese”. In uno stemma di famiglia senza eguali (Haydn, Mozart, Beethoven… più Schubert), la forma musicale della classicità viennese ha una declinazione di insieme peculiare: cioè così costantemente agganciata all’organicità strutturale da poter turbare i pensieri più bergsoniani di Jankélévitch. Il trionfo della unitarietà tematica e dei procedimenti di sviluppo, e la proiezione su larga scala del nesso dissonanza/risoluzione, costituiscono i segni di elezione dello stile classico, e nel riconoscerli oppure emularli consistono il vanto e la ragione di vita rispettivamente di eminenti teorici, da Marx a Schenker, e di altri musicisti, a cominciare dalla cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna” (che però fraintende la “Prima”, nel senso di rimuovere la tonalità considerandola come un dato superabile di quell’eredità). Ciò non toglie che la tendenza associativa – che nella musica reale non la dà mai vinta del tutto a quella sintattica – resti pur sempre presente, come una figlia minore esclusa dal maggiorascato ma indispensabile alla tavola comune. Al punto che la lente d’ingrandimento di alcuni studiosi acuti scopre interessanti distinzioni interne allo stile classico proprio in ordine alla presenza della “figlia” più trascurata, cioè della tendenza additiva. E proprio qui troviamo più di una corrispondenza con le preferenze di Michel Dalberto. Friedrich Blume distingue l’arte di Mozart da quella di Haydn sulla base della prevalenza di un succedersi di motivi non imparentati (dove invece in Haydn Blume mette in rilievo la predominanza dello sviluppo), ma associati sulla base di una organicità che si coglie a posteriori e dipende da un’ampia gamma di condizioni: melodiche, armoniche, ritmiche, espressive. Dalberto ha eseguito tutti i Concerti di Mozart. Quanto a Beethoven, gli aspetti di regolarità ampia e squadrata che connotano il suo primo stile, lo rendono ben più additivo rispetto al periodo centrale che «torna decisamente alle forme chiuse, concise e drammatiche di Haydn...» (Rosen). Dalberto ha inciso tutte le Sonate pianistiche del primo periodo di Beethoven (anche se non trascura del tutto le altre sonate). Riguardo Schubert, è pacificamente accettato che la “figlia minore” osi qui addirittura rinnovare la famiglia e cambiare di segno l’eredità per i posteri: l’arte di Schubert si snoda in un rapporto dialettico con il linguaggio classico, sia per l’erompere insopprimibile delle medianti nell’armonia, con conseguente polarizzazione mediantica di vaste sezioni della musica, sia per la tendenza ad utilizzare temi lirici dalle forme quasi chiuse. Tutto ciò investe anche i brani in forma-sonata, latori di una temporalità diversa dal modello beethoveniano e dal suo teleologismo formale. Dalberto, unico tra i pianisti in circolazione, ha inciso tutta la musica per pianoforte di Schubert!
Torniamo al programma del concerto di Messina: nessuna analisi manca di rilevare il plesso unitario di coerenza e drammaticità da cui sgorga l’incredibile movimento iniziale della beethoveniana op. 57, insieme rivoluzionario e radicalmente classico. La cellula ossessiva e ricorrente del basso (una terzina di re bemolle ribattuti che scende su do) racchiude anche il piano armonico del primo movimento, dove la relazione di armonia napoletana si afferma e si integra in un terreno che finora le era stato precluso: lo choc di un primo tema che subito viene ripetuto mezzo tono sopra continua dopo oltre 200 anni a interpellarci e inquietarci come una sfinge che flirta col regno delle ombre. I tedeschi non perdono occasione per magnificare la suprema coerenza dell’arte di Beethoven, al punto che la più autorevole delle edizioni in circolazione, la Henle, appone una nota di apparato critico alla prima pagina della Sonata op. 57 che fa l’effetto di una bandiera tedesca sventolata sulla nazionale di calcio in teutonica concentrazione mentre risuona l’inno. Poiché le legature sono segnate in maniera non uniforme sia nell’autografo che nella I edizione, i revisori hanno infatti ritenuto conveniente intervenire sul fraseggio, uniformandolo («sie wurde überall sinngemäß vereinheitlicht»). Tutto deve essere coerente! Un’arte così profondamente organica come quella di Beethoven non cede se non per errore di notazione – secondo quei revisori – alle sirene di una pur minima inflessione differenziante in ciò che si presenta razionalmente omogeneo. A ben guardare, invece, elementi sequenziali e additivi, e quindi anche una correlata e flessibile varietà nell’unità – si osservi come tutto ciò se la intenda con la “figlia minore” dello stile classico –, sono presenti anche nell’op. 57. Vi si ravvisa un discorso parallelo che non appare subito, a fronte della spettacolare messa in forma di un continuo sviluppo consequenziale, per lo stesso motivo per cui la lettera rubata sfugge allo sguardo dei protagonisti in un celebre racconto di Poe: è assolutamente in vista! Di fatto per quattro volte (esposizione, sviluppo, ripresa e coda) il primo movimento dipana i temi nello stesso ordine. Le sezioni però non solo sono attraversate da un’unificante linea teleologica, ma tendono anche a compenetrarsi vicendevolmente: epocale lo “scandalo” di una ripresa di sonata su armonia di quarta e sesta, mentre nel basso il ribattuto di terzine fa in modo che il tumulto dello sviluppo invada la ripresa in modo sostanziale oltre che per gli aspetti di instabilità armonica. Un altro momento memorabile di sintesi tra sviluppo e additività sequenziale è all’avvio della coda, quando il motto ossessivo per la prima volta risolve alla tonica. Il secondo movimento dell’op. 57 è un tema con variazioni, con un continuo incremento di velocità, mentre il finale – dove il moto perpetuo è già indicazione di continuità additiva – è un rondò-sonata con un caratteristico ritornello non dell’esposizione ma dello sviluppo e della ripresa, fino alla coda travolgente dove tutto il mondo cade a precipizio verso il registro grave della tastiera.
Per diversi motivi – compenetrazione di diversi regimi formali da organizzare ma anche gestire istintivamente, ethos eroico e tragico, virtuosismo e valori sonoriali spinti fino alla sensualità timbrica – l’op. 57 si addice a Dalberto. Effettivamente, la sua esecuzione non può passare inosservata. Di contro a ogni uniformazione iper razionale, restio a porgere la musica come un teorema, Dalberto mostra nondimeno anche una lucidissima visione della struttura quando serve per rendere convincente quella flessibilità a cui non rinuncia neanche qui. Basti ad esempio il memorabile inizio del II movimento: tutti suonano espressivamente la sottodominante del tempo debole della prima misura, anticipando l’enfasi prevista dallo sforzato posto da Beethoven alla quinta misura. Lo fa anche Dalberto, in maniera decisa su entrambe le sottodominanti, e suona il resto della frase come una chiusura, compresa la sesta eccedente sull’ultima suddivisione della sesta misura e la nona di dominante sul primo movimento della settima misura. Ma ecco la prima variazione: contrattempo tra destra e sinistra. Beethoven non segna nessuno sforzando, ma questo è forse un motivo per non uniformare il senso complessivo della prima variazione a quello del tema? No, e infatti tutti uniformano. Dalberto non la pensa così: espone le prime cinque misure del tema variato in contrattempo con un senso di placida attesa, e poi anima la chiusura della frase in una vertigine di cromatismo che parte dal basso. Semplicemente bellissimo; ma in fondo, se si legge bene (che è la cosa più difficile) è già tutto prescritto da Beethoven. Non lo si nota, ma qui non solo manca lo sforzato, non solo il ritmo sincopato del basso tende a spostare in avanti la tensione, ma nel momento decisivo al basso invece di si con due bemolle troviamo la naturale. La tensione lineare delle sincopi ha cambiato le funzioni armoniche: non più dominante, poi sesto grado e ancora dominante, ma un’unica dominante in condizione di momentanea ma intensissima ebbrezza semitonale delle parti. (Non bisogna far sapere queste cose ai revisori della Henle: non sia mai che decidano di ristampare “uniformando”, aggiungendo qualche segno di sforzato o non permettendo al si con due bemolle di ripresentarsi come la naturale). Sulla stessa linea di eccellenza delle intenzioni e della realizzazione è anche il finale della Sonata op. 57, e appena meno convincente il I movimento, ricco di idee ma a volte non abbastanza equilibrato nell’incisività della mano destra a fronte delle cose interessanti, fin troppe, che Dalberto trova dall’altro lato. Ma qualche scotto a una disposizione che si mantiene sempre viva e fluida bisogna pur pagarlo. Non si dimentichi che Friedrich Gulda andava volentieri ai concerti dell’immenso Cortot perché non gli risultava mai «prevedibile». Altri tempi… di cui è piacevole quanto raro risentire il profumo.
Abbiamo lasciato per ultimo Schumann, che in realtà ha costituito la sontuosa cornice del concerto. Dopo aver aperto il concerto con i Phantasiestücke op12 e dopo un primo bis dedicato a uno dei brani più amati di Schubert (Improvviso op. 90 n. 3), Dalberto ha sfoderato per concludere il Sogno dalle Scene infantili op. 15, in un’esecuzione di bellezza quasi insostenibile. Anche qui, come nei Phantasiestücke proposti all’inizio, si avvertono i fondamentali francesi di Dalberto: pianisticamente in una tecnica del suono scaltrita à rebours dalle sottigliezze di Debussy e Ravel (che scrivono per un pianoforte molto più simile a quelli di oggi rispetto agli strumenti utilizzati da Schumann); culturalmente in una lettura che tende a mediare i contrasti, inclinando a una visione del “fantastico” romantico declinato sotto l’aspetto del sogno più che sotto quello del realismo magico. In questo senso, la lettura dei Phantasiestücke di Dalberto si avvicina a quella dei Miroirs raveliani eseguiti subito dopo – dove l’evocazione di ombre metafisiche vince di gran lunga sul pretesto descrittivo –, venendo quindi richiamata e riassunta dal mirabile ultimo minuto del concerto, quando l’onirismo dichiarato nel titolo schumanniano ha esibito con rara intensità quei gradi maggiori di “verità” che la trasmutazione della grande arte suole rivendicare sulla realtà. Applausi strameritati.

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domenica 5 maggio 2019

Idomeneo a Palermo

Idomeneo a Palermo

Santi Calabrò



Nel percorso di alcuni artisti, determinate opere assurgono a pietre miliari in quanto «punto di incontro ideale e unico della foga giovanile e della potenza della maturità» (Harry Halbreich), ma la loro identificazione non è sempre inequivocabile: su Beethoven (Sinfonia “Eroica”) o Stravinski (Sacre du printemps) si può raggiungere un accordo pressoché unanime, mentre con Mozart l’immenso Idomeneo può essere insidiato da un gioiello perfetto come il Concerto K. 271. Opera di ispirazione travolgente, Idomeneo paga più di un debito al tentativo di opporsi, nel Settecento inoltrato che vede l’innesto di elementi del teatro musicale francese, alla decadenza dell’opera seria di tradizione italiana. Mozart stesso in seguito sancirà indirettamente ma nel modo più esemplare lo stadio successivo alla decadenza con i suoi ineguagliabili drammi giocosi, dove persino i contenuti tragici si sviluppano sulle stoffe e sulle tecniche dell’opera comica. Distinguere tuttavia nell’ldomeneo le pagine più riuscite da quelle che si limitano alla buona fattura - a causa di insufficienze contingenti del libretto o di più generali conflitti fra stili, codici e situazioni - è compito della musicologia e materia per giudizi di gusto; in sede di esecuzione la regia può esaltare o deprimere taluni punti apicali a seconda che punti alla coesione drammaturgica oppure a una successione di quadri. In questo senso appaiono rivelatori almeno due momenti dell’opera di  Mozart per come è stata proposta dal Teatro Massimo di Palermo, con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi (ripresa di un allestimento del Teatro delle Muse di Ancona). Dopo l’Ouverture Mozart presenta con i crismi di un vero conflitto tragico una delle tre cantanti protagoniste dell’opera, la principessa troiana Ilia (figlia di Priamo e prigioniera del re di Creta Idomeneo): il personaggio è dilaniato tra la passione per Idamante, figlio di Idomeneo, e l’odio di famiglia per il nemico. L’Aria di Idamante (qui il mezzosoprano Aya Wakizono), che entra in scena subito dopo, propone invece per il momento “solo” un giovane innamorato. E cosa fa Carmela Remigio (Ilia) mentre Idamante le si dichiara? Con ogni evidenza cede e corrisponde, da subito! Peccato che l’opera preveda uno svolgimento per cui soltanto più avanti, nel terzo e conclusivo atto, la stessa Ilia confesserà a Idamante quanto ricambi il suo affetto con fervore. A quel punto l’amore di Ilia, insieme alla certezza dell’amore paterno, contribuisce a rendere Idamante così intrepido da uccidere un mostro marino e da offrire la sua testa al padre straziato, che dovrebbe sacrificarlo perché così vuole il dio Nettuno; Ilia non ci sta e offre la sua, di testa, proprio per salvare Idamante. La storia ha un lieto fine: il deus ex machina li salva entrambi e condanna alla disperazione la terza primadonna – Elettra, innamorata anche lei di Idamante –, comandando che Idomeneo vada in esilio e che proprio suo figlio, con a fianco Ilia, diventi il nuovo re di Creta. Alle conseguenze non da poco degli ordini impartiti dalla Voce fuori scena (qui canta Renzo Ran: bene, peraltro, ma senza il necessario timbro terrifico) dovrebbe corrispondere, per Mozart, un effetto teatrale adeguato: tanto che il compositore nelle sue lettere si diffonde in confronti con lo spettro di Amleto! Nella realizzazione di Pizzi, invece, l’irruzione del soprannaturale, marcata solo da un blando effetto di luce, passa quasi inosservata, tanto che ci si domanda quale dei personaggi in scena stia facendo il ventriloquo… Entrambi i momenti segnalati, di portata tale da determinare incongruenze che si irradiano pervasivamente contro linearità drammaturgica e realismo, attestano come questa regia tenda a bordeggiare ai margini del “dramma” – in entrambi i suoi significati – e privilegi un’estetica da grande affresco neoclassico, nell’eleganza stilizzata di una scenografia dove dominano il bianco, il nero e le gradazioni del grigio. Mentre la messa in scena è tendenzialmente statica, assecondando più la matrice metastasiana del pezzo chiuso che quella gluckiana del recitativo accompagnato (senza sottolineare peraltro neanche la fastosità coreutica di ascendenza francese, anzi contenendola), l’opera fa valere comunque il suo respiro di insieme: i collegamenti fra i numeri chiusi e il tendere addirittura al “durchkomponiert” sono infatti non solo strettamente connessi al dispiegarsi dell’intreccio, ma realizzati da Mozart con piena, ineludibile e spesso geniale coerenza “autonoma” della musica.     
A petto di una densità dell’orchestra che non ha pari nelle altre opere mozartiane, Daniel Cohen dirige con slancio, non si tira indietro di fronte a tratti che non è eccessivo definire preromantici e concerta con buon equilibrio di insieme - salvo che il peso dei fiati a volte non è ben integrato, soprattutto nel primo atto -.
La scorrevolezza dei tempi convince, anche se qualche snodo dei recitativi, inclusi alcuni recitativi secchi, meriterebbe maggiore indugio. René Barbera rende con voce ben proiettata le sfaccettature del protagonista, restituendo un Idomeneo vibrante e sofferto cui manca solo un colore più profondo (e quindi più regale); Eleonora Buratto (Elettra) canta con una vocalità, un timbro e una paletta espressiva che si esaltano quando il personaggio raggiunge le vette della sua momentanea buona sorte, ma risultano efficaci anche nella furiosa aria della parte finale. Aya Wakizono dà vita ai tormenti e all’eroismo di Idamante con voce precisa, mentre alla buona prova di Carmela Remigio come Ilia non arride in questo momento il valore aggiunto della rotondità di timbro ammirata in altre sue prestazioni. Di buon livello Giovanni Sala (Arbace) e Carlos Natale (Gran Sacerdote). Il Coro di Idomeneo ha la statura di un personaggio e talora anche di due, dove si distinguono i cretesi e i troiani: la regia oratoriale e sobria li individua ben poco, ma pregevole è la realizzazione musicale del Coro del Massimo. Applausi per tutti.


sabato 2 febbraio 2019


Una Turandot fantasmagorica al Massimo

Santi Calabrò




L’incontro tra Turandot di Puccini e una video-installazione ha costituito l’originale proposta dell’apertura stagionale 2019 del Massimo di Palermo (allestimento in coproduzione con Badisches Staatstheater Karlsruhe, Teatro Comunale di Bologna, e in partnership con Lakhta Center di San Pietroburgo). Il connubio appare intrigante, perché la fisionomia dell’ultima opera di Puccini sopporta l’invadenza di schermi enormi su cui scorrono le immagini: in Turandot il coro ha una funzione importante ma statica, e sia i pochi movimenti strettamente necessari che i pochi fatti che avvengono trovano riscontro puntuale nella musica. Appare quindi condivisibile l’idea di Fabio Cherstich, regista, di assimilare il coro, i personaggi secondari e le comparse al mondo proiettato alle loro spalle, per lasciare agire nel senso di una recitazione più tradizionale solamente Calaf, Liù e Timur, unici stranieri rispetto al mondo di Turandot. La visione scintillante e inquietante di una Pechino appartenente a un futuro tecnologico - dove androidi e umani convivono sotto un potere oscuro e assoluto, mentre la fiabesca presenza di un drago gigante allude alla stessa tiranna sanguinaria - costituisce la carta migliore giocata dal regista e dal collettivo russo AES+F, gruppo molto conosciuto nel panorama internazionale dell’arte d’avanguardia, che qui firma scene, video e costumi. Va riconosciuto che questa città immaginaria aggiorna, rileggendolo dall’interno, il mondo fiabesco con cui Puccini misura in Turandot il suo linguaggio musicale e teatrale. Com’è noto, l’operazione ha dei tratti problematici. Se il registro fiabesco si rivela adatto a creare uno stile “puccinstravinskiano”, l’ethos insopprimibile del compositore lucchese viene fuori in maniera tanto alta quanto incongrua: con la morte di Liù il solito vecchio Puccini – artista inarrivabile nel mandare a morte le eroine innamorate – mette nei guai il compositore alle prese con il duetto finale in cui finalmente la principessa Turandot cede all’amore. La malattia fatale non permise a Puccini che di lasciare degli abbozzi – da qui le discussioni infinite sulle versioni completate da Alfano e poi da Berio -, ma in realtà a monte di un problema di incompiutezza preesiste un problema di estetica e di drammaturgia. Liù suicida per amore, vittima sacrificale torturata in diretta, si è presa tutta la scena con un realismo che ingombra troppo. Non è questione di note musicali: si possono perdonare a Turandot che si scioglie all’amore tutte le teste mozzate in precedenza, ma non la tortura di Liù. Probabilmente, inquadrando il punto delicato di Turandot - l’innesto del realismo in un tessuto magico -, la regia di Cherstich e i video degli artisti russi avrebbero evitato alcune scelte poco convincenti. Questo allestimento, infatti, appare discutibile proprio sotto la specie di un realismo fuori luogo. Alternandosi con la pregevole Pechino futurista, uomini di tutte le razze ma vestiti di egalitarie mutande ostentano i loro corpi troneggiando dai video con presenza fisica iper-reale, fino al clou prevedibile della visione delle loro testone mozzate. Dopo un po’ li si riammira tutti interi, a incarnare gli antichi stupratori dell’antenata di Turandot. Infine, quando la principessa viene “scongelata” da Calaf, gli uomini un po’ sono còlti in pose affettuose con donne, un po’ fra loro; naturalmente, anche donne con donne, per come va di moda. Insomma, un inno all’amore senza barriere, in omaggio a nuove tendenze di rappresentazione che si interrogano sui messaggi di genere, sulla contrapposizione delle razze e sull’integrazione. Come cadono mal poste, queste accortezze politicamente corrette, in un’opera dalla musica così esotica e dai livelli di significato così densi! Certo, il livello di tutti questi video è spettacolare, e non mancano di pertinenza simbolica le commistioni tra uomini in mutande e alter ego digitali della cyber-principessa, ma resta inappropriata l’insistenza sul livello corporale dei pretendenti di Turandot; per troppe parti dell’opera i corpi costituiscono il soggetto di un film autonomo che scorre sullo sfondo, mentre nella parte anteriore della scena si rappresenta... Turandot. Lo spettacolo si è avvalso di una direzione d’orchestra ispirata: Gabriele Ferro ha la cultura e i mezzi per esaltare gli aspetti più modernisti di Puccini, e lo fa con una sapienza che dall’orchestrazione, dal timbro, si estende agli accenti, alle dinamiche al respiro di insieme. L’orchestra è un po’ troppo fragorosa solo nel finale di Alfano, quasi a voler dare con l’enfasi sonora una coerenza ultima che all’opera difetta, per il resto la conduzione di Ferro si mantiene incisiva e protagonista senza sovrastare le voci. Da Valeria Sepe (Liù) arriva la prova vocale più convincente ed immedesimata nel ruolo, mentre Brian Jagde (Calaf) esibisce potenza, un bel colore e una buona intonazione ma non appare duttile nelle parti più espressive, rese in modo piuttosto sommario. Tatiana Melnychenko restituisce una discreta Turandot, con una buona linea di canto ma un timbro a volte un po’ spento. Di buon livello il resto del cast e ottima la prova del coro, preparato da Piero Monti. Applausi per tutti, qualche perplessità sulla regia.














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© Rosellina Garbo 2019

Louis-Ferdinand Céline, "Viaggio al termine della notte". L'Ulysses dei disgraziati

“Viaggio al termine della notte” non si risparmia niente: un grido d’angoscia costante dal primo all’ultimo rigo, ma senza un briciolo...