lunedì 18 novembre 2019

Una conversazione tra le due sponde del Reno. L'arte di Michel Dalberto


Una conversazione tra le due sponde dell Reno
L'arte di Michel Dalberto

Santi Calabrò


La presenza di Ravel in un concerto pianistico è un fatto talmente diffuso da non connotare una particolare inclinazione dell’esecutore, sia esso francese o d’altra provenienza. Nella prima metà del Novecento l’artefice maggiore dell’inserimento stabile della musica di Debussy e di Ravel nel repertorio pianistico fu un tedesco, Walter Gieseking, e fra gli esecutori più celebrati di ieri e di oggi non mancano i non-francesi. D’altro canto, spesso gli artisti francesi “sconfinano” con grandi risultati su tutti i terreni, senza certo limitarsi ad essere specialisti di arte transalpina. Esemplare il caso di Michel Dalberto, che ha una carriera, una discografia e una reputazione tali da accreditare un’immagine di interprete aperto alle diverse declinazioni del corpus della grande musica pianistica, perlomeno a quelle maggiori: Dalberto esegue correntemente sia il repertorio classico e romantico di area austro-germanica sia quello francese (senza farsi mancare incursioni in Russia). Eppure, nel recital tenuto a Messina nella stagione della Filarmonica Laudamo, proprio la particolare congenialità mostrata con i brani di Ravel (a partire dall’esemplare esecuzione della Sonatine), incastonati tra Schumann e Beethoven, può costituire lo spunto per un approfondimento che, partendo dall’arte esecutiva di Dalberto, si allarga a considerazioni più generali sulla musica e sull’interpretazione. 
Le pagine di Ravel hanno concluso la prima parte di un concerto aperto con la quintessenza del romanticismo fantastico, i Phantasiestücke op12 di Schumann, seguiti da tre dei Miroirs (Oiseaux tristes, Alborada del gracioso e La Vallée des cloches) e dalla Sonatine di Ravel, per proporre nella seconda parte una delle opere maggiori di quello che Adorno definiva il periodo “integro” – che significa anche il più radicalmente classico – di Beethoven, la Sonata op. 57 “Appassionata”. A considerare nell’insieme questo programma, la Sonatine di Ravel sembra assolvere a una accorta funzione di termine medio tra concezioni opposte della musica e dell’esperienza del suo ascolto: una scelta da manuale di impaginazione del recital – forse la migliore, dopo qualche dubbio, fra altre possibili con gli stessi ingredienti (il programma stampato prevedeva l’inversione delle due proposte raveliane). Al centro di quella sorta di esposizione museale costituita dal programma di un concerto, la preziosa Sonatine può apparire in questo caso come un’elegante e smaliziata stampa neoclassica, da contemplare nel corridoio di collegamento fra sale dove campeggiano quadri e poderosi affreschi ben più adatti ad attirarci nei loro gorghi profondi. Fantasticando, ma non troppo, il ruolo della Sonatine forse sarebbe stato proprio questo, con lo stesso programma eseguito da Wilhelm Kempff. Oppure, in tempi meno lontani, da Alfred Brendel. O persino, al di fuori da una pronuncia austro-tedesca (ammesso che ciò sia veramente possibile quando si parla di pianoforte), da Richter o da Ciccolini. Invece, nella mostra allestita da Dalberto, la Sonatine rilutta a un ruolo prezioso ma vicario: perché l’esecuzione di Dalberto ne afferma una intensa e coinvolgente dimensione artistica, e perché la stessa Sonatine diventa l’ideale centro di osservazione per un’estetica interpretativa, quella di Dalberto, che riesce così duttile nel restituire mondi diversi non sulla base di un eclettismo camaleontico, ma partendo da un solido punto di osservazione. L’interpretazione può avere a che fare con la verità, giusta l’elegante e fulminante tesi di Luigi Pareyson, solo a condizione che sia storica e personale. Solo ciò che è personale può essere anche universale! Altrettanto chiaramente, ascoltando Dalberto, si capisce che l’interpretazione musicale va a segno se i suoi fondamenti hanno una connotazione culturalmente dominante: che in questo caso è profondamente francese.
Come tutte le grandi nazioni che delineano l’insieme della cultura occidentale, la Francia non è un monolite ma un insieme di stratificazioni dalla quale prendono figura nervature inconfondibili. In questo senso, si potrebbe dire che il rigoroso apprendistato di Ravel, la sua profonda conoscenza del passato musicale e la sua inconfondibile cifra stilistica possono assurgere a emblema dei processi di sedimentazione culturale, ripensamento e riformulazione creativa. Anche la riflessione sulla musica, nella Francia del secolo scorso, presenta degli apici in cui letteralmente il pensiero “prende figura”: in questo ambito Vladimir Jankélévitch ha un posto eminente. Impossibile non fare i conti, fosse pure per opporvisi, con la sua critica intransigente alle tradizionali metafore della musica come “linguaggio”, “discorso” e – particolarmente invisa – “sviluppo”.  Si sentono qui risuonare e confluire anche altri temi: l’impressione – termine decisivo della cultura francese, soprattutto se non lo si limita alla pittura – non intende portare alla luce la vita interiore come nesso organico e come espressione, ma punta a esprimere la soggettività dissolvendola verso l’esterno (qualora si volesse dare una connotazione unitaria al postromanticismo francese, sarebbe propriamente questa). Restando a una filosofia del tempo musicale, Jankélévitch si distingue da posizioni come quella del tedesco Adorno, mentore di un “ascolto responsabile” (concetto che si lega all’idea di Beethoven come centro della musica in forza della sua coerenza organica e ideale) o, nella stessa area di pensiero francese, di Lévi Strauss, per il quale la musica è una macchina “per sopprimere il tempo perché instaura un regime temporale alternativo. Jankélévitch sostiene di contro che la “visione retrospettiva” diffusamente postulata come necessaria a cogliere la struttura musicale sia un inganno, derivando da una presunzione intellettuale che non coglie la preminenza e la superiorità del “puro ascolto”, del lasciarsi andare alla processualità temporale che afferra la musica come una realtà “vera”, dotata di una fluidità ben diversa dagli irrigidimenti del linguaggio. In questo senso Jankélévitch si muove dunque da e verso Bergson: il flusso temporale, con un ascolto naturalmente sincronizzato, stravince sulla struttura (che si disvela a un ascolto retrospettivo). A ben guardare, e pur assegnando ai termini il peso diverso che ogni contesto conferisce, si scorge in questo movimento di pensiero il riproporsi filosofico-musicale di una dicotomia che pervade, a vari livelli e in varie epoche, tanto la costruzione della musica quanto la teoria, che distingue da un lato una temporalità additiva, tale da indurre un ascolto cumulativo, dall’altro un tempo lineare dove gli anelli della catena sin dall’inizio generano consequenzialità. Nell’uno e nell’altro caso si tende ad associare la forma della musica sia all’esperienza dell’ascolto sia al modo di interpretarla; quando tuttavia le teorie spingono il pedale su queste derivazioni, proprio mentre presumono di chiudere il cerchio trionfalmente, smarriscono il contatto con la realtà. Né la musica, né il suo ascolto, né l’interpretazione si lasciano infatti ridurre a uno solo dei due corni, ma volta per volta si sostanziano di misture diverse di temporalità fluida e di solida struttura, di impressioni e di espressioni, di trasmutazioni e di rispecchiamenti.
La ricchezza di stimoli da cui muove la cultura musicale di Dalberto, formatosi in un ambiente eccezionalmente fecondo, restituisce una inclinazione prevalente verso l’attimo e verso l’additività, una predisposizione quasi fisica al fluire naturale della musica, fatto di momenti reciprocamente aggregati anche quando la trama sottostante presenti un filo strutturale ad ampia campata. A una logica troppo predeterminata Dalberto tende a preferire il respiro dei singoli tasselli, rigorosi nell’articolazione e nella individuazione dei profili ma aperti a nuances “atmosferiche” dalla calibratura persino estemporanea, dettate anche dalla risposta della materia sonora, dal rapporto fisico con lo strumento. Eppure, una logica connettiva non manca: con discrezione, quasi scaturente in presa diretta con la densità dell’ordito e con l’incanto del timbro. Il primo movimento della Sonatine di Ravel – dove lo schema formale sonatistico non ha ovviamente la tensione processuale di Beethoven ma neanche quella di Brahms, prestando la sua forma standardizzata a temi di pronuncia decadente – ne risulta trasfigurato per via di momenti nello stesso tempo puntuali e consequenziali, arricchiti dalla cura del rimandare l’uno all’altro. Invitando non certo a un “ascolto retrospettivo”, e piuttosto porgendo un regalo dopo l’altro per un ascolto sempre orientato al presente e all’immediato futuro, Dalberto cura il filo prezioso delle voci interne, magari evidenziate solo dall’accenno di un timbro diverso o da una minima inflessione, che di presso possono diventare linea principale (come nel contralto subito prima della ripresa), oppure condurre un loro discorso concomitante ma autonomo. In tal modo l’esecuzione supera e cuce le nette scansioni fraseologiche delineate dalla linea principale, instaurando un flusso continuo immerso in un’agogica palpitante e in un senso timbrico fuso con la verticalità (dove l’accordo tende a sua volta all’autonomia, a diventare significativo di per sé e padrone ultimo, che può delegare alle linee i mandati dell’aggregazione). Se il primo movimento è come un nastro che srotola i suoi tesori, bellissimo è anche il tempo centrale, Mouvement de Menuet, a partire dall’attacco in cui il gioco contemporaneo di due eventi disegna un arabesco di linee non gerarchizzate ma paritariamente dipanate. La brillante esecuzione del movimento finale, in linea con le premesse, chiude la prima parte del concerto, dove la Sonatine – sommata agli splendori sonori dei precedenti Miroirs – restituisce una cifra di rara se non unica capacità di far convivere le diverse inclinazioni raveliane. A rigore l’accoppiata Miroirs/Sonatine proporrebbe la contrapposizione di impressionismo e neoclassicismo, ma il Ravel di Dalberto risulta allo stesso tempo sia sfaccettato nelle sue anime che unitario. Soprattutto, è unitario nel sollecitare un’esperienza di ascolto fluida, come scansione di attimi connessi.
Dopo l’intervallo, è il momento della beethoveniana op. 57 (di Schumann riferiremo dopo). Un pianista che restituisce con tanto giudizio la forma e la trama della Sonatine di Ravel non può non essere un classicista inappuntabile. Ma se si guarda con attenzione al repertorio classico di Dalberto, sorge il sospetto di una predilezione trasversale all’interno della “famiglia” stratificata e poderosa che si definisce “stile classico viennese”. In uno stemma di famiglia senza eguali (Haydn, Mozart, Beethoven… più Schubert), la forma musicale della classicità viennese ha una declinazione di insieme peculiare: cioè così costantemente agganciata all’organicità strutturale da poter turbare i pensieri più bergsoniani di Jankélévitch. Il trionfo della unitarietà tematica e dei procedimenti di sviluppo, e la proiezione su larga scala del nesso dissonanza/risoluzione, costituiscono i segni di elezione dello stile classico, e nel riconoscerli oppure emularli consistono il vanto e la ragione di vita rispettivamente di eminenti teorici, da Marx a Schenker, e di altri musicisti, a cominciare dalla cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna” (che però fraintende la “Prima”, nel senso di rimuovere la tonalità considerandola come un dato superabile di quell’eredità). Ciò non toglie che la tendenza associativa – che nella musica reale non la dà mai vinta del tutto a quella sintattica – resti pur sempre presente, come una figlia minore esclusa dal maggiorascato ma indispensabile alla tavola comune. Al punto che la lente d’ingrandimento di alcuni studiosi acuti scopre interessanti distinzioni interne allo stile classico proprio in ordine alla presenza della “figlia” più trascurata, cioè della tendenza additiva. E proprio qui troviamo più di una corrispondenza con le preferenze di Michel Dalberto. Friedrich Blume distingue l’arte di Mozart da quella di Haydn sulla base della prevalenza di un succedersi di motivi non imparentati (dove invece in Haydn Blume mette in rilievo la predominanza dello sviluppo), ma associati sulla base di una organicità che si coglie a posteriori e dipende da un’ampia gamma di condizioni: melodiche, armoniche, ritmiche, espressive. Dalberto ha eseguito tutti i Concerti di Mozart. Quanto a Beethoven, gli aspetti di regolarità ampia e squadrata che connotano il suo primo stile, lo rendono ben più additivo rispetto al periodo centrale che «torna decisamente alle forme chiuse, concise e drammatiche di Haydn...» (Rosen). Dalberto ha inciso tutte le Sonate pianistiche del primo periodo di Beethoven (anche se non trascura del tutto le altre sonate). Riguardo Schubert, è pacificamente accettato che la “figlia minore” osi qui addirittura rinnovare la famiglia e cambiare di segno l’eredità per i posteri: l’arte di Schubert si snoda in un rapporto dialettico con il linguaggio classico, sia per l’erompere insopprimibile delle medianti nell’armonia, con conseguente polarizzazione mediantica di vaste sezioni della musica, sia per la tendenza ad utilizzare temi lirici dalle forme quasi chiuse. Tutto ciò investe anche i brani in forma-sonata, latori di una temporalità diversa dal modello beethoveniano e dal suo teleologismo formale. Dalberto, unico tra i pianisti in circolazione, ha inciso tutta la musica per pianoforte di Schubert!
Torniamo al programma del concerto di Messina: nessuna analisi manca di rilevare il plesso unitario di coerenza e drammaticità da cui sgorga l’incredibile movimento iniziale della beethoveniana op. 57, insieme rivoluzionario e radicalmente classico. La cellula ossessiva e ricorrente del basso (una terzina di re bemolle ribattuti che scende su do) racchiude anche il piano armonico del primo movimento, dove la relazione di armonia napoletana si afferma e si integra in un terreno che finora le era stato precluso: lo choc di un primo tema che subito viene ripetuto mezzo tono sopra continua dopo oltre 200 anni a interpellarci e inquietarci come una sfinge che flirta col regno delle ombre. I tedeschi non perdono occasione per magnificare la suprema coerenza dell’arte di Beethoven, al punto che la più autorevole delle edizioni in circolazione, la Henle, appone una nota di apparato critico alla prima pagina della Sonata op. 57 che fa l’effetto di una bandiera tedesca sventolata sulla nazionale di calcio in teutonica concentrazione mentre risuona l’inno. Poiché le legature sono segnate in maniera non uniforme sia nell’autografo che nella I edizione, i revisori hanno infatti ritenuto conveniente intervenire sul fraseggio, uniformandolo («sie wurde überall sinngemäß vereinheitlicht»). Tutto deve essere coerente! Un’arte così profondamente organica come quella di Beethoven non cede se non per errore di notazione – secondo quei revisori – alle sirene di una pur minima inflessione differenziante in ciò che si presenta razionalmente omogeneo. A ben guardare, invece, elementi sequenziali e additivi, e quindi anche una correlata e flessibile varietà nell’unità – si osservi come tutto ciò se la intenda con la “figlia minore” dello stile classico –, sono presenti anche nell’op. 57. Vi si ravvisa un discorso parallelo che non appare subito, a fronte della spettacolare messa in forma di un continuo sviluppo consequenziale, per lo stesso motivo per cui la lettera rubata sfugge allo sguardo dei protagonisti in un celebre racconto di Poe: è assolutamente in vista! Di fatto per quattro volte (esposizione, sviluppo, ripresa e coda) il primo movimento dipana i temi nello stesso ordine. Le sezioni però non solo sono attraversate da un’unificante linea teleologica, ma tendono anche a compenetrarsi vicendevolmente: epocale lo “scandalo” di una ripresa di sonata su armonia di quarta e sesta, mentre nel basso il ribattuto di terzine fa in modo che il tumulto dello sviluppo invada la ripresa in modo sostanziale oltre che per gli aspetti di instabilità armonica. Un altro momento memorabile di sintesi tra sviluppo e additività sequenziale è all’avvio della coda, quando il motto ossessivo per la prima volta risolve alla tonica. Il secondo movimento dell’op. 57 è un tema con variazioni, con un continuo incremento di velocità, mentre il finale – dove il moto perpetuo è già indicazione di continuità additiva – è un rondò-sonata con un caratteristico ritornello non dell’esposizione ma dello sviluppo e della ripresa, fino alla coda travolgente dove tutto il mondo cade a precipizio verso il registro grave della tastiera.
Per diversi motivi – compenetrazione di diversi regimi formali da organizzare ma anche gestire istintivamente, ethos eroico e tragico, virtuosismo e valori sonoriali spinti fino alla sensualità timbrica – l’op. 57 si addice a Dalberto. Effettivamente, la sua esecuzione non può passare inosservata. Di contro a ogni uniformazione iper razionale, restio a porgere la musica come un teorema, Dalberto mostra nondimeno anche una lucidissima visione della struttura quando serve per rendere convincente quella flessibilità a cui non rinuncia neanche qui. Basti ad esempio il memorabile inizio del II movimento: tutti suonano espressivamente la sottodominante del tempo debole della prima misura, anticipando l’enfasi prevista dallo sforzato posto da Beethoven alla quinta misura. Lo fa anche Dalberto, in maniera decisa su entrambe le sottodominanti, e suona il resto della frase come una chiusura, compresa la sesta eccedente sull’ultima suddivisione della sesta misura e la nona di dominante sul primo movimento della settima misura. Ma ecco la prima variazione: contrattempo tra destra e sinistra. Beethoven non segna nessuno sforzando, ma questo è forse un motivo per non uniformare il senso complessivo della prima variazione a quello del tema? No, e infatti tutti uniformano. Dalberto non la pensa così: espone le prime cinque misure del tema variato in contrattempo con un senso di placida attesa, e poi anima la chiusura della frase in una vertigine di cromatismo che parte dal basso. Semplicemente bellissimo; ma in fondo, se si legge bene (che è la cosa più difficile) è già tutto prescritto da Beethoven. Non lo si nota, ma qui non solo manca lo sforzato, non solo il ritmo sincopato del basso tende a spostare in avanti la tensione, ma nel momento decisivo al basso invece di si con due bemolle troviamo la naturale. La tensione lineare delle sincopi ha cambiato le funzioni armoniche: non più dominante, poi sesto grado e ancora dominante, ma un’unica dominante in condizione di momentanea ma intensissima ebbrezza semitonale delle parti. (Non bisogna far sapere queste cose ai revisori della Henle: non sia mai che decidano di ristampare “uniformando”, aggiungendo qualche segno di sforzato o non permettendo al si con due bemolle di ripresentarsi come la naturale). Sulla stessa linea di eccellenza delle intenzioni e della realizzazione è anche il finale della Sonata op. 57, e appena meno convincente il I movimento, ricco di idee ma a volte non abbastanza equilibrato nell’incisività della mano destra a fronte delle cose interessanti, fin troppe, che Dalberto trova dall’altro lato. Ma qualche scotto a una disposizione che si mantiene sempre viva e fluida bisogna pur pagarlo. Non si dimentichi che Friedrich Gulda andava volentieri ai concerti dell’immenso Cortot perché non gli risultava mai «prevedibile». Altri tempi… di cui è piacevole quanto raro risentire il profumo.
Abbiamo lasciato per ultimo Schumann, che in realtà ha costituito la sontuosa cornice del concerto. Dopo aver aperto il concerto con i Phantasiestücke op12 e dopo un primo bis dedicato a uno dei brani più amati di Schubert (Improvviso op. 90 n. 3), Dalberto ha sfoderato per concludere il Sogno dalle Scene infantili op. 15, in un’esecuzione di bellezza quasi insostenibile. Anche qui, come nei Phantasiestücke proposti all’inizio, si avvertono i fondamentali francesi di Dalberto: pianisticamente in una tecnica del suono scaltrita à rebours dalle sottigliezze di Debussy e Ravel (che scrivono per un pianoforte molto più simile a quelli di oggi rispetto agli strumenti utilizzati da Schumann); culturalmente in una lettura che tende a mediare i contrasti, inclinando a una visione del “fantastico” romantico declinato sotto l’aspetto del sogno più che sotto quello del realismo magico. In questo senso, la lettura dei Phantasiestücke di Dalberto si avvicina a quella dei Miroirs raveliani eseguiti subito dopo – dove l’evocazione di ombre metafisiche vince di gran lunga sul pretesto descrittivo –, venendo quindi richiamata e riassunta dal mirabile ultimo minuto del concerto, quando l’onirismo dichiarato nel titolo schumanniano ha esibito con rara intensità quei gradi maggiori di “verità” che la trasmutazione della grande arte suole rivendicare sulla realtà. Applausi strameritati.

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