domenica 5 maggio 2019

Idomeneo a Palermo

Idomeneo a Palermo

Santi Calabrò



Nel percorso di alcuni artisti, determinate opere assurgono a pietre miliari in quanto «punto di incontro ideale e unico della foga giovanile e della potenza della maturità» (Harry Halbreich), ma la loro identificazione non è sempre inequivocabile: su Beethoven (Sinfonia “Eroica”) o Stravinski (Sacre du printemps) si può raggiungere un accordo pressoché unanime, mentre con Mozart l’immenso Idomeneo può essere insidiato da un gioiello perfetto come il Concerto K. 271. Opera di ispirazione travolgente, Idomeneo paga più di un debito al tentativo di opporsi, nel Settecento inoltrato che vede l’innesto di elementi del teatro musicale francese, alla decadenza dell’opera seria di tradizione italiana. Mozart stesso in seguito sancirà indirettamente ma nel modo più esemplare lo stadio successivo alla decadenza con i suoi ineguagliabili drammi giocosi, dove persino i contenuti tragici si sviluppano sulle stoffe e sulle tecniche dell’opera comica. Distinguere tuttavia nell’ldomeneo le pagine più riuscite da quelle che si limitano alla buona fattura - a causa di insufficienze contingenti del libretto o di più generali conflitti fra stili, codici e situazioni - è compito della musicologia e materia per giudizi di gusto; in sede di esecuzione la regia può esaltare o deprimere taluni punti apicali a seconda che punti alla coesione drammaturgica oppure a una successione di quadri. In questo senso appaiono rivelatori almeno due momenti dell’opera di  Mozart per come è stata proposta dal Teatro Massimo di Palermo, con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi (ripresa di un allestimento del Teatro delle Muse di Ancona). Dopo l’Ouverture Mozart presenta con i crismi di un vero conflitto tragico una delle tre cantanti protagoniste dell’opera, la principessa troiana Ilia (figlia di Priamo e prigioniera del re di Creta Idomeneo): il personaggio è dilaniato tra la passione per Idamante, figlio di Idomeneo, e l’odio di famiglia per il nemico. L’Aria di Idamante (qui il mezzosoprano Aya Wakizono), che entra in scena subito dopo, propone invece per il momento “solo” un giovane innamorato. E cosa fa Carmela Remigio (Ilia) mentre Idamante le si dichiara? Con ogni evidenza cede e corrisponde, da subito! Peccato che l’opera preveda uno svolgimento per cui soltanto più avanti, nel terzo e conclusivo atto, la stessa Ilia confesserà a Idamante quanto ricambi il suo affetto con fervore. A quel punto l’amore di Ilia, insieme alla certezza dell’amore paterno, contribuisce a rendere Idamante così intrepido da uccidere un mostro marino e da offrire la sua testa al padre straziato, che dovrebbe sacrificarlo perché così vuole il dio Nettuno; Ilia non ci sta e offre la sua, di testa, proprio per salvare Idamante. La storia ha un lieto fine: il deus ex machina li salva entrambi e condanna alla disperazione la terza primadonna – Elettra, innamorata anche lei di Idamante –, comandando che Idomeneo vada in esilio e che proprio suo figlio, con a fianco Ilia, diventi il nuovo re di Creta. Alle conseguenze non da poco degli ordini impartiti dalla Voce fuori scena (qui canta Renzo Ran: bene, peraltro, ma senza il necessario timbro terrifico) dovrebbe corrispondere, per Mozart, un effetto teatrale adeguato: tanto che il compositore nelle sue lettere si diffonde in confronti con lo spettro di Amleto! Nella realizzazione di Pizzi, invece, l’irruzione del soprannaturale, marcata solo da un blando effetto di luce, passa quasi inosservata, tanto che ci si domanda quale dei personaggi in scena stia facendo il ventriloquo… Entrambi i momenti segnalati, di portata tale da determinare incongruenze che si irradiano pervasivamente contro linearità drammaturgica e realismo, attestano come questa regia tenda a bordeggiare ai margini del “dramma” – in entrambi i suoi significati – e privilegi un’estetica da grande affresco neoclassico, nell’eleganza stilizzata di una scenografia dove dominano il bianco, il nero e le gradazioni del grigio. Mentre la messa in scena è tendenzialmente statica, assecondando più la matrice metastasiana del pezzo chiuso che quella gluckiana del recitativo accompagnato (senza sottolineare peraltro neanche la fastosità coreutica di ascendenza francese, anzi contenendola), l’opera fa valere comunque il suo respiro di insieme: i collegamenti fra i numeri chiusi e il tendere addirittura al “durchkomponiert” sono infatti non solo strettamente connessi al dispiegarsi dell’intreccio, ma realizzati da Mozart con piena, ineludibile e spesso geniale coerenza “autonoma” della musica.     
A petto di una densità dell’orchestra che non ha pari nelle altre opere mozartiane, Daniel Cohen dirige con slancio, non si tira indietro di fronte a tratti che non è eccessivo definire preromantici e concerta con buon equilibrio di insieme - salvo che il peso dei fiati a volte non è ben integrato, soprattutto nel primo atto -.
La scorrevolezza dei tempi convince, anche se qualche snodo dei recitativi, inclusi alcuni recitativi secchi, meriterebbe maggiore indugio. René Barbera rende con voce ben proiettata le sfaccettature del protagonista, restituendo un Idomeneo vibrante e sofferto cui manca solo un colore più profondo (e quindi più regale); Eleonora Buratto (Elettra) canta con una vocalità, un timbro e una paletta espressiva che si esaltano quando il personaggio raggiunge le vette della sua momentanea buona sorte, ma risultano efficaci anche nella furiosa aria della parte finale. Aya Wakizono dà vita ai tormenti e all’eroismo di Idamante con voce precisa, mentre alla buona prova di Carmela Remigio come Ilia non arride in questo momento il valore aggiunto della rotondità di timbro ammirata in altre sue prestazioni. Di buon livello Giovanni Sala (Arbace) e Carlos Natale (Gran Sacerdote). Il Coro di Idomeneo ha la statura di un personaggio e talora anche di due, dove si distinguono i cretesi e i troiani: la regia oratoriale e sobria li individua ben poco, ma pregevole è la realizzazione musicale del Coro del Massimo. Applausi per tutti.


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