mercoledì 5 febbraio 2020

Santi Calabrò - Il Parsifal pacifista di Graham Vick



Santi Calabrò


Il Parsifal pacifista di Graham Vick


Da anni Graham Vick si misura a Palermo con Wagner: offerto dopo la Tetralogia dispiegata dal 2013 al 2016, il Parsifal che ha inaugurato la stagione 2020 del Teatro Massimo ha quindi costituito una sorta di coronamento. Le regie di Vick hanno un segno riconoscibile, con riferimenti all'attualità che circolano da un’opera all’altra: la guerra dei mondi e delle religioni che cova e spesso esplode dall'inizio di questo millennio aveva ispirato la conclusione del Crepuscolo degli Dei (dove l'incendio del Valhalla è causato da jihadisti suicidi provvisti di giubbotti esplosivi), e tale riferimento pervade per intero questa ultima produzione. La redenzione – tema centrale del Parsifal – si declina nell'auspicio di una laica pacificazione mondiale, con una dimensione canalizzata in senso umano piuttosto che mistico.
In generale l'attualizzazione e le trovate originali di una messinscena operistica sono operazioni che in prima battuta si misurano con la dimensione reale: con la lettera dei dati dell'opera, amplificati o forzati, e con la sostanza dei suoi effetti, che ne dovrebbero uscire potenziati. Ma la stessa attualizzazione può puntare più in alto, cioè al contenuto ideale dell'opera, postulandone una tale efficacia metatemporale da favorire il dispiego di mezzi che, legandosi all'orizzonte dello spettatore, gli rivelino in modo più vivido il plesso di forze che muove un dramma musicale. Nel teatro di Wagner reale e ideale sono però da intendere nell'accezione particolare che acquistano per un verso nella sua stessa teorizzazione, per un altro verso nei problemi di allestimento. A livello della complessa teoria wagneriana, la musica, unica arte che esprima il sentimento universale, si giova del mimetismo di altri mezzi (parola e gesto) come tramiti verso il noumeno che si manifesta solo musicalmente; in questo quadro, dove lo stesso dramma non segue necessariamente una logica di causa ed effetto, la vera sede del significato resta sempre la musica. A mettere in pratica tali affascinanti ma traballanti premesse, si aprono possibilità feconde proprio in ordine alle crepe della teoria: se non ve ne fossero lo spettacolo wagneriano avrebbe una sola possibilità di rappresentazione, cioè non sarebbe arte ma tesi filosofica. E invece le regie wagneriane possono andare a segno con varie impostazioni, da un prosciugamento dei gesti al mimetismo spinto, fino a un simbolismo che metta in rilievo proprio la sovrabbondanza feconda di significato della parte musicale contro la direzione semantica più netta ma più limitata della parola e del gesto.
In questo Parsifal di Vick, la linea e i mezzi utilizzati danno risultati diversamente centrati secondo l’occorrenza drammaturgica che, in quanto scandita dai dati combinati dell’intreccio e della musica, risponde alle ragioni di un simbolismo eccedente ma direzionato, rispetto al quale la musica può sovraccaricare ma non mentire. Gli eventi reali del Parsifal e quelli narrati sono chiaramente evocati da Vick, spesso con crudo realismo, ma in subordine alla torsione compiuta in via prioritaria nella costellazione tematica del Parsifal. Ancora una volta una scena spoglia ci mostra le quinte (belle?) del Teatro Massimo. In mezzo al grande piano inclinato su cui si svolge l'azione scorre una lunga tela scorrevole, sulla quale vengono proiettate le ombre di mimi che agiscono da dietro, mentre i personaggi dell'opera stanno per lo più davanti alla tela. I cavalieri hanno la divisa dei marines americani, Kundry piomba in scena alquanto islamizzata, mentre in mezzo alle divise Amfortas, il sofferente re del Graal, qui senz’altro redentore da guarire prima che da redimere, è vestito (si fa per dire) come un Cristo: la sua ferita è una vistosa piaga nel costato e sulla testa non manca la corona di spine. Parsifal all'inizio si presenta proprio come uno che passa per caso e uccide un cigno, ma quando nel terzo atto ha assunto compiutamente il suo mandato appare tutto nero come un combattente dell'Isis, e la lancia sacra ovviamente non può bastare: ha anche un mitra. A compensare un eccesso di cattiva coscienza dell'occidente, che sembrerebbe permeare le allusioni alla jihad di Vick, lo spettacolo regala segni di una cattiva coscienza più universale, come quando dietro la tela vediamo soldati che sgozzano donne incinte: chiara allusione al terrorismo islamico.
La tela di Vick – mezzo che riassume sia le punte positive che alcuni lati discutibili dell’allestimento – svolge ottimamente il suo lavoro quando si tratta di commentare il monologo di Gurnemanz. Sullo sfondo scorre buona parte di quello che viene raccontato, compreso l’“incidente” di Amfortas che va ad affrontare Klingsor e, distratto dal cedimento alla sensualità, rimedia la sua ferita (dal quale derivano sofferenza atroce e sbandamento dei cavalieri), perdendo pure la lancia sacra. Ma quando sulla musica del terzo atto – che dalle rarefazioni mistiche del venerdì santo passa a evocare con un incedere pesante il funerale di Titurel – Vick proietta tutti gli orrori del mondo, l’intenzione ideologica contrasta troppo con la drammaturgia musicale wagneriana. L’opposizione di una controscena invasiva diventa realtà troppo acerbamente provocatoria non per i suoi contenuti, ma in primo luogo rispetto al processo dell’assunzione di identità salvifica di Parsifal, che tutto quanto precede ha portato ormai a stadio avanzato. In questo senso appare parimenti fuori luogo non il singolo segno scenico, ma proprio l’ambizione a un totale ribaltamento dei valori: le fanciulle-fiore col pareo funzionano; i bambini di tutte le etnie apparentemente morti che giacciono al posto delle fanciulle sul giardino di Klingsor ormai appassito, e che poi si rianimano grazie a Parsifal come fiori di speranza per il mondo, sono una delle idee più poetiche, efficace a illuminare gli assunti di redenzione dell’opera per il tramite degli assunti specifici della lettura di Vick. Che però poi tornino in scena le stesse signorine, con lo stesso pareo, e soprattutto che si votino al baby sitting, non distingue più fiore da fiore. E quando anche Kundry diventa una tata, nel Parsifal ripensato da Vick, si aggiunge solo un corollario al teorema.
Passando per eccessi di questo tipo nei finali di atto Vick è efficace, ma purtroppo anche coerente a suo modo! Nel Finale del primo atto i cavalieri (i marines) bevono il sangue del Graal e poi si tirano il sangue dal proprio braccio con sofferenza. L’invenzione spettacolare unisce l’effetto e la sottigliezza teologica rispetto al sincretismo di declinazioni della cristianità che pullula dietro l’edificio culturale del Parsifal wagneriano. Ma proprio perché il male e il dolore in Wagner si intrufolano dappertutto, dal sacrificio eucaristico alla sessualità, si fatica a veder poi risolvere in irenismo laico senza residui un preteso “messaggio” dell’opera. Nell’universo di Wagner e della sua estrema opera-mondo l’eros è fratello, se non scaturigine, del male, e una castità che se la intende con la grazia divina lo redime: piaccia o non piaccia a Vick, che invece nel finale dell’opera rimuove il Graal e fa di Parsifal un profeta del dialogo oltre la religione più che interreligioso.
Il messaggio di Vick è chiaro, ma il Parsifal rilutta ad adattarvisi: forse il problema di fondo di questa regia, a confronto del Ring, non è che qui manchi la vera ispirazione, ma che in Parsifal l’eroe non muoia, negandosi quel compimento estremo che preclude (in modo da sempre benefico per l’arte e soprattutto per la musica) lo scioglimento in tesi di tutti i grumi dialettici. La vittoria dei redentori invece sembra porre a Vick un’esigenza di “motivazione”. L’unico funerale, quello di Titurel, è non a caso enfatizzato, perché in questo quadro porta via il male. Presentando il padre di Amfortas vestito come un mandante internazionale, un colletto bianco della guerra, la sua morte per Vick non può che essere provvidenziale. Ma a buttarla troppo in politica o ideologia Wagner ci perde sempre: non solo è troppo semplificato, ma finisce per essere superato dalla realtà, che spesso va oltre. Nessuna trovata o provocazione di Vick può reggere il confronto con Trump che presenta unilateralmente una proposta di pace con la pompa di un accordo raggiunto.    
Nella parte musicale, il direttore Omer Meir Wellber porta l’orchestra del Massimo a un buon livello tecnico e a un suono credibile per Wagner, anche se preferisce (troppo) profilare ogni piccola cellula e si applica meno a cogliere il profilo di insieme della frase wagneriana. Kundry è raffigurata con la ideologia semplificata di Vick nel suo transito da donna oscura in niqab (simbolo che denota fatti precisi e non raccoglie tutti i misteri e le stratificazioni del personaggio) a Maria Maddalena servizievole e finalmente in comunione con il suo castissimo redentore, con la seduttrice materna e freudiana relegata a ponte modulante. Catherine Hunold offre a questo personaggio una resa più lirica che tagliente, mentre Julian Hubbard, nel ruolo del titolo per un’indisposizione del tenore titolare, canta in modo più adeguato al complesso del percorso, ma anche lui è più convincente in senso poetico che eroico. Si direbbero entrambi ispirati dalle buone intenzioni della messinscena! John Relyea, interprete di Gurnemanz, offre un’interpretazione profonda e meditata, all’altezza dell’intero e delle pieghe del suo ruolo di narratore e protagonista. Buono il resto del cast; da Tómas Tómasson (Amfortas), Alexei Tanovitski (Titurel) e Thomas Gazheli (Klingsor) arrivano anche immedesimazioni attoriali particolarmente persuasive. Resta discutibile, per l’effetto acustico, che una parte degli interventi del coro provenga da casse amplificate: un prezzo eccessivo per vedere lo sfondo del palcoscenico come ancoraggio visivo al reale. Lunghi applausi e qualche accenno di contestazione al regista.














Foto di scena  a cura di © Rosellina Garbo e © Franco Lannino




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