domenica 15 marzo 2020

Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace: il segreto dell’acqua e il motore immobile


Esiste un aggettivo molto usato nella critica letteraria per connotare opere ponderose, piene di pagine e di storie e di parole: “torrenziale”: nel caso di La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, mai termine potrebbe essere più adeguato, perché l’acqua è il dominus, al tempo stesso benigno e maligno, che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina. Acqua che ristora e rigenera come un liquido amniotico, nelle estati senza tempo in cui si immerge il protagonista, Ivo Brandani; acqua che, all’opposto, tracima e inonda, sovrapponendosi e sostituendosi al divino, sentito sempre come assente o inesistente.
Il romanzo adotta una tecnica narrativa originale e funzionale: durante un viaggio di ritorno dall’Egitto, il sessantanovenne ingegner Brandani rivive la sua esistenza a ritroso. Dalle ultime esperienze, narrate nei primi capitoli, si retrocede alla giovinezza fino alla prima infanzia, nell’immediato e complesso secondo Dopoguerra. Il protagonista si spinge fino all’estremo limite possibile della memoria, e l’ultimo suo ricordo è quello del passo sul pavimento, compiuto verso i tre anni, che sanciva la sua guarigione da una malattia piuttosto seria. Ogni regresso verso il passato è accompagnato da riflessioni che riportano la macchina del tempo al momento iniziale.
Al lettore il compito di ricostruire i pezzi di mosaico sparsi apparentemente in disordine, in realtà con uno schema narrativo ingegnoso. Ivo Brandani è perseguitato da un Edipo devastante nei confronti del padre (chiamato, archetipicamente, “Padre”, senza articolo determinativo), che impersona, in apparenza, l’anti-Ivo: sicuro, autoritario, nutrito di poche ma inflessibili idee, alle prese con l’ingombrante eredità del fascismo. Invece Ivo cresce insicuro, portando all’esterno il suo conflitto con Padre, imbevuto di divieti che man mano che cresce infrange tutti, uno per uno, non senza sofferenze e inquietudini. Ma la differenza con Padre, al quale Ivo sente e si sforza di non assomigliare, ma al tempo stesso teme come nel peggiore degli incubi di assomigliare, è fondamentalmente una: lui non ha fatto la guerra, è vissuto interamente in tempo di pace, mentre Padre ha fatto la guerra, sperimentando uno stato cui l’uomo post-bellico non ha avuto accesso. Cosa significhi vivere in tempo di pace lo capiamo nei dolorosi accessi ai flussi di coscienza di Ivo, nella piattezza degli ideali, nel rifiuto della profondità in nome di un non ben precisato progresso.
Non siamo d’accordo con quanti vedono in lui una persona debole, sostanzialmente un fallito, né sul fatto che le cinquecento pagine di romanzo non abbiano una trama vera e propria. C’è un altro snodo importante, a nostro avviso, ed è quando Ivo ragazzino, considerato spesso un vinto dai coetanei in base a precise regole gerarchiche di gruppo, reagisce ad un prepotente, sorprendendolo e atterrandolo. La collocazione dell’episodio quasi a fine romanzo indica l’importanza di un ricordo che, pur non avendogli schiuso le porte della sicurezza in sé, gli ha insegnato che nulla è predeterminato e, entro certi inevitabili limiti, un barlume di libero arbitrio sopravvive.
Oltre al conflitto con Padre, nella sua vita si pone un brusco cambio di indirizzo, quando lascia la facoltà di filosofia per diventare ingegnere edile. La motivazione che dà a sé stesso in quel momento appare sorprendente: progettare un ponte è una forma di filosofia viva, realizzata. L’archetipo del ponte attraversa tutto il romanzo: ponte fra acqua e terra, tentativo dell’homo faber di assoggettare il dominus-Acqua, che poi si vendica inondando. E però Brandani, in una gita al Firth of Forth scozzese, si innamora della bellezza del ponte e decide di diventare ingegnere, salvo poi, alla fine, interrogarsi sull’insensatezza di questa scelta. Per questo, e per il conflitto irrisolto con Padre, dovremmo considerarlo fallito? Non più di tanti altri personaggi di romanzo da Des Esseintes di Huysmans a Gonzalo Pirobutirro di Gadda. Una traiettoria esistenziale non si può giudicare per le vere o presunte sconfitte nel mondo-di-fuori, ma per lo sviluppo interiore cui perviene il soggetto. Nonostante, tecnicamente, il romanzo sembri percorso da una fissità insensibile esemplificata dal concetto di Motore Immobile, nel caso di Ivo Brandani, il retrocedere all’infanzia rivela l’impossibile desiderio di rifugio nel ventre materno, dove trovare, ancora una volta, l’Acqua Primordiale, arricchito (o impoverito) dall’incontro-scontro con la realtà inesorabile.
AFC

Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, Milano, 2013




sabato 7 marzo 2020

Andrea Tarabbia, "Madrigale senza suono": nasce prima il genio o il dolore?

In questo romanzo, vincitore del Premio Campiello 2019, Andrea Tarabbia scende negli abissi della mente umana, e costringe il lettore a interrogarsi sui processi che uniscono il genio alla follia, la disperazione al talento. La narrazione si mette in moto attraverso il ritrovamento di un manoscritto piuttosto ambiguo, apparentemente redatto da un servitore del grande compositore Carlo Gesualdo principe di Venosa. L'autore del rinvenimento è un mostro sacro della musica moderna, Igor Stravinskij. Inizia così una doppia storia: da un lato osserviamo la discesa di Carlo Gesualdo nell'oscurità del dolore, inesorabile e insondabile, e nella potenza della sua musica; dall'altro seguiamo le reazioni di Stravinskij che diventa una sorta di viaggiatore nel tempo, arrivando a sovrapporre la sua estetica musicale a quella di Gesualdo attraverso il Monumentum pro Gesualdo, brano strumentale espressamente scritto come omaggio al Principe di Venosa.
Il lettore è avvinto alle pagine del romanzo senza una pausa: il ritmo travolgente di Tarabbia porta ad esplorare l'evento-chiave della vita di Gesualdo, l'uxoricidio commesso in nome di una concezione arcaica dell'onore, che da quel momento avvelena la sua e le altrui vicine esistenze. Eppure, nelle convulse pagine musicali che Gesualdo prende a scrivere, sembra voler emergere una sorta di arcana  e impossibile liberazione dal crimine commesso, che però può avvenire soltanto bruciandosi nel fuoco stesso che lo consuma. Non c'è purificazione o sublimazione, soltanto un convulso agitarsi dentro il labirinto della propria mente. 
Eppure, sembra emergere dalle pagine del romanzo un interrogativo inquietante: che rapporto esiste tra dolore e genio? Gesualdo oltrepassa le Colonne d'Ercole della musica fino ad allora conosciuta, scrivendo brani visionari in anticipo di secoli, in quanto trasfonde nella parola intonata il tormento che lo attanaglia dopo il duplice efferato omicidio (insieme alla moglie, l'amante)? Oppure è un personaggio tormentato di per sé, e la sua capacità di scrivere musica e di dare alla parola intonata un valore espressivo mai ascoltato prima preesistono alle drammatiche vicende che lo coinvolgeranno? Detto in altri termini, viene prima il genio o il dolore?
L'espediente di affidare la narrazione ad una improbabile cronaca redatta da un servitore quasi invisibile costituisce uno degli enigmi apparentemente insoluti dell'opera, e gli stessi dubbi di Stravinskij lo confermano. 
Il finale non può essere thriller nel vero senso della parola, perché sappiamo già dall'inizio che Maria d'Avalos morirà; addirittura, un musicista o musicologo, avvezzi alla frequentazione gesualdiana, conoscono alcuni dettagli sapientemente disseminati da Tarabbia (insieme a numerose e puntuali citazioni musicali sia di Gesualdo che di Stravinskij). Eppure, la storia avvince lo stesso, e parecchio. Secondo noi il motivo risiede proprio nell'interrogativo cui l'autore costringe il suo lettore: non si può, infatti, smettere di esplorare i confini che separano la ragione dalla follia, il dolore dal genio. E, come tutti i romanzi cosiddetti "a tinte forti", sono proprio alcuni dettagli raccapriccianti a farci sorgere una sorta di "dissonanza cognitiva": separare il Gesualdo sublime musicista dal Gesualdo assassino non è operazione semplice, né è detto che sia questa la chiave di lettura dell'opera. Anzi, potrebbe anche essere l'esatto contrario, ma questo è un processo mentale richiesto al lettore. Come ogni romanzo profondo e significativo, il suo senso va colmato attraverso la lettura e la riflessione.
AFC

tarabbia andrea - madrigale senza suono

Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri, Torino, 2019

Louis-Ferdinand Céline, "Viaggio al termine della notte". L'Ulysses dei disgraziati

“Viaggio al termine della notte” non si risparmia niente: un grido d’angoscia costante dal primo all’ultimo rigo, ma senza un briciolo...