giovedì 2 aprile 2020

Louis-Ferdinand Céline, "Viaggio al termine della notte". L'Ulysses dei disgraziati




“Viaggio al termine della notte” non si risparmia niente: un grido d’angoscia costante dal primo all’ultimo rigo, ma senza un briciolo di autocompiacimento, senza falsi moralismi, senza chiedere al lettore quella compassione che nemmeno il protagonista, Ferdinand Bardamu, nutre verso sé stesso. È una vita buia come la notte, e il buio che sperimenta il protagonista è scosceso, inarrivabile: poco prima della conclusione, Ferdinand, nel confronto/scontro con un personaggio chiave, Madelon, sostiene che lei non ha la forza di scendere dove si trova lui: “c’era troppa notte per lei, intorno a me”.
Bardamu, oltre ad essere l’alter ego letterario di Céline, ha un doppio anche nel romanzo: Leon Robinson. Entrambi appartengono alla genìa dei “disgraziati”, e la loro parabola è simile ma asimmetrica: dagli orrori della Grande Guerra, che lascia ferite nell’animo più nefaste di quelle del corpo, all’impossibile tentativo di dimenticare nei bordelli di second’ordine, poi nell’Africa Equatoriale, in improbabili e grottesche avventure ai limiti della sopravvivenza, al miraggio della Grande Mela, dove si compie il rito della solitudine in mezzo alla folla; per tornare, infine, in Francia, per cercare inutilmente di riappropriarsi della propria vita.
Non c’è solo la notte, anche il viaggio, ed è l’unico modo per sopportare il dolore e la fatica dell’esistenza-notte. Ferdinand non è in grado di mantenere un impiego o di sostare in un luogo per più tempo: le sue partenze sono sempre improvvise, e non resta, al lettore, che tentare di seguirlo nei suoi deliri e nei pellegrinaggi della gente sconfitta. Il paragone con Leopold Bloom dell’Ulysses sembra plausibile, a patto di non rivendicare nessuna preminenza dell’uno verso l’altro. Anche il dublinese attraversa la sua notte personale, che però dura un arco di tempo ragionevole da un lato – appena 24 ore – irrazionale dall’altro, perché infarcito da flussi di coscienza e folli sperimentalismi.
La lingua di Céline è uno stranissimo e originale mix tra linguaggio di gergo, qui l’argot, e momenti di introspezione psicologica di finezza estrema (con annesse enormi difficoltà di resa in altre lingue). Bardamu per tutto il suo viaggio non fa che distruggere uno ad uno tutti i pilastri dei benpensanti, con annesse ipocrisie e sventramento autentico della patina di rispettabilità: tutti, nel privato, secondo la filosofia di Ferdinand, sono sozzi e corrotti, e l’essere umano non è che un “sottuomo zoppicante”. Egli però subisce, quasi contro la sua volontà, e contrariamente a Robinson, un’evoluzione, Infatti, tornato dalla guerra, Bardamu completa gli studi di medicina, ma per un bel pezzo non esercita la professione, e quando lo fa, la sua situazione non migliora affatto, perché si mette a curare altri disgraziati come lui. Solo verso la fine del romanzo, l’alter-ego letterario, Robinson, che lo ha seguito come un’ombra in tutti i viaggi, torna proprio quando Bardamu ha finalmente trovato una semi-stabilità come direttore di un sanatorio per alienati. Il finale, drammatico, rivelerà il paradosso della latente asimmetria tra i due personaggi, e, in una scena tra le più toccanti della letteratura – proprio perché svuotata di qualunque significato che vada oltre le crude parole –, raggiunge un’intensità espressiva che sembra anelare al non detto, all’impossibile riscatto del popolo dei reietti della società, e persino ad una forma laica di pietà. Ed è al tempo stesso una scrittura di denuncia della disumanizzazione crescente nella società tra le due Guerre, messaggio valido per i tempi a venire, non esclusi i presenti.
AFC


Louis-Ferdinand Celine, Voyage au bout de la nuit, 1932, trad. it. di A. Alexis, Dall'Oglio, Milano, 1962. Di questo capolavoro esistono altre traduzioni, come quella, classica,di Ernesto Ferrero, e quella datata di Gian Dauli.


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