Una conversazione tra le due sponde dell Reno
L'arte di Michel Dalberto
Santi Calabrò
La presenza di Ravel in un concerto
pianistico è un fatto talmente diffuso da non connotare una particolare
inclinazione dell’esecutore, sia esso francese o d’altra provenienza. Nella
prima metà del Novecento l’artefice maggiore dell’inserimento stabile della
musica di Debussy e di Ravel nel repertorio pianistico fu un tedesco, Walter
Gieseking, e fra gli esecutori più celebrati di ieri e di oggi non mancano i
non-francesi. D’altro canto, spesso gli artisti francesi “sconfinano” con
grandi risultati su tutti i terreni, senza certo limitarsi ad essere
specialisti di arte transalpina. Esemplare il caso di Michel Dalberto, che ha
una carriera, una discografia e una reputazione tali da accreditare un’immagine
di interprete aperto alle diverse declinazioni del corpus della grande musica pianistica, perlomeno a quelle maggiori:
Dalberto esegue correntemente sia il repertorio classico e romantico di area
austro-germanica sia quello francese (senza farsi mancare incursioni in
Russia). Eppure, nel recital tenuto a Messina nella stagione della Filarmonica
Laudamo, proprio la particolare congenialità mostrata con i brani di Ravel (a
partire dall’esemplare esecuzione della Sonatine),
incastonati tra Schumann e Beethoven, può costituire lo spunto per un
approfondimento che, partendo dall’arte esecutiva di Dalberto, si allarga a
considerazioni più generali sulla musica e sull’interpretazione.
Le pagine di Ravel hanno concluso la
prima parte di un concerto aperto con la quintessenza del romanticismo
fantastico, i Phantasiestücke op. 12
di Schumann, seguiti da tre dei Miroirs (Oiseaux tristes, Alborada del gracioso e La Vallée des cloches) e dalla Sonatine di Ravel, per proporre nella seconda parte una delle opere
maggiori di quello che Adorno definiva il periodo “integro” – che significa
anche il più radicalmente classico – di Beethoven, la Sonata op. 57 “Appassionata”. A considerare nell’insieme questo
programma, la Sonatine di Ravel
sembra assolvere a una accorta funzione di termine medio tra concezioni opposte
della musica e dell’esperienza del suo ascolto: una scelta da manuale di
impaginazione del recital – forse la migliore, dopo qualche dubbio, fra altre
possibili con gli stessi ingredienti (il programma stampato prevedeva
l’inversione delle due proposte raveliane). Al centro di quella sorta di
esposizione museale costituita dal programma di un concerto, la preziosa Sonatine può apparire in questo caso
come un’elegante e smaliziata stampa neoclassica, da contemplare nel corridoio
di collegamento fra sale dove campeggiano quadri e poderosi affreschi ben più
adatti ad attirarci nei loro gorghi profondi. Fantasticando, ma non troppo, il
ruolo della Sonatine forse sarebbe
stato proprio questo, con lo stesso programma eseguito da Wilhelm Kempff.
Oppure, in tempi meno lontani, da Alfred Brendel. O persino, al di fuori da una
pronuncia austro-tedesca (ammesso che ciò sia veramente possibile quando si
parla di pianoforte), da Richter o da Ciccolini. Invece, nella mostra allestita
da Dalberto, la Sonatine rilutta a un
ruolo prezioso ma vicario: perché l’esecuzione di Dalberto ne afferma una
intensa e coinvolgente dimensione artistica, e perché la stessa Sonatine diventa l’ideale centro di
osservazione per un’estetica interpretativa, quella di Dalberto, che riesce
così duttile nel restituire mondi diversi non sulla base di un eclettismo
camaleontico, ma partendo da un solido punto di osservazione. L’interpretazione può avere a che fare con
la verità, giusta l’elegante e
fulminante tesi di Luigi Pareyson, solo a condizione che sia storica e personale. Solo ciò che è personale
può essere anche universale!
Altrettanto chiaramente, ascoltando Dalberto, si capisce che l’interpretazione
musicale va a segno se i suoi fondamenti hanno una connotazione culturalmente
dominante: che in questo caso è profondamente francese.
Come tutte le grandi nazioni che
delineano l’insieme della cultura occidentale, la Francia non è un monolite ma
un insieme di stratificazioni dalla quale prendono figura nervature
inconfondibili. In questo senso, si potrebbe dire che il rigoroso apprendistato
di Ravel, la sua profonda conoscenza del passato musicale e la sua
inconfondibile cifra stilistica possono assurgere a emblema dei processi di
sedimentazione culturale, ripensamento e riformulazione creativa. Anche la riflessione
sulla musica, nella Francia del secolo scorso, presenta degli apici in cui
letteralmente il pensiero “prende figura”: in questo ambito Vladimir
Jankélévitch ha un posto eminente. Impossibile non fare i conti, fosse pure per
opporvisi, con la sua critica intransigente alle tradizionali metafore della
musica come “linguaggio”, “discorso” e – particolarmente invisa –
“sviluppo”. Si sentono qui risuonare e
confluire anche altri temi: l’impressione
– termine decisivo della cultura francese, soprattutto se non lo si limita alla
pittura – non intende portare alla luce la vita interiore come nesso organico e
come espressione, ma punta a
esprimere la soggettività dissolvendola verso l’esterno (qualora si volesse
dare una connotazione unitaria al postromanticismo francese, sarebbe
propriamente questa). Restando a una filosofia del tempo musicale, Jankélévitch
si distingue da posizioni come quella del tedesco Adorno, mentore di un
“ascolto responsabile” (concetto che si lega all’idea di Beethoven come centro
della musica in forza della sua coerenza organica e ideale) o, nella stessa
area di pensiero francese, di Lévi Strauss, per il quale la musica è una
macchina “per sopprimere il tempo” – perché instaura un regime temporale
alternativo. Jankélévitch sostiene di contro che la “visione
retrospettiva” diffusamente postulata come necessaria a cogliere la struttura
musicale sia un inganno, derivando da una presunzione intellettuale che non
coglie la preminenza e la superiorità del “puro ascolto”, del lasciarsi andare alla processualità
temporale che afferra la musica come una realtà “vera”, dotata di una fluidità
ben diversa dagli irrigidimenti del linguaggio. In questo senso Jankélévitch si
muove dunque da e verso Bergson: il flusso temporale, con un ascolto naturalmente
sincronizzato, stravince sulla struttura (che si disvela a un ascolto
retrospettivo). A ben guardare, e pur assegnando ai termini il peso diverso che
ogni contesto conferisce, si scorge in questo movimento di pensiero il
riproporsi filosofico-musicale di una dicotomia che pervade, a vari livelli e
in varie epoche, tanto la costruzione della musica quanto la teoria, che
distingue da un lato una temporalità additiva, tale da indurre un ascolto cumulativo, dall’altro un tempo lineare dove
gli anelli della catena sin dall’inizio generano consequenzialità. Nell’uno e
nell’altro caso si tende ad associare la forma della musica sia all’esperienza
dell’ascolto sia al modo di interpretarla; quando tuttavia le teorie spingono
il pedale su queste derivazioni, proprio mentre presumono di chiudere il
cerchio trionfalmente, smarriscono il contatto con la realtà. Né la musica, né
il suo ascolto, né l’interpretazione si lasciano infatti ridurre a uno solo dei
due corni, ma volta per volta si sostanziano di misture diverse di temporalità
fluida e di solida struttura, di impressioni e di espressioni, di trasmutazioni
e di rispecchiamenti.
La ricchezza di stimoli da cui muove la cultura musicale di
Dalberto, formatosi in un ambiente eccezionalmente fecondo, restituisce una inclinazione
prevalente verso l’attimo e verso l’additività, una predisposizione quasi
fisica al fluire naturale della musica, fatto di momenti reciprocamente
aggregati anche quando la trama sottostante presenti un filo strutturale ad
ampia campata. A una logica troppo predeterminata Dalberto tende a preferire il
respiro dei singoli tasselli, rigorosi nell’articolazione e nella
individuazione dei profili ma aperti a nuances
“atmosferiche” dalla calibratura persino estemporanea, dettate anche dalla
risposta della materia sonora, dal rapporto fisico con lo strumento. Eppure,
una logica connettiva non manca: con discrezione, quasi scaturente in presa
diretta con la densità dell’ordito e con l’incanto del timbro. Il primo
movimento della Sonatine di Ravel –
dove lo schema formale sonatistico non ha ovviamente la tensione processuale di
Beethoven ma neanche quella di Brahms, prestando la sua forma standardizzata a
temi di pronuncia decadente – ne risulta trasfigurato per via di momenti nello
stesso tempo puntuali e consequenziali, arricchiti dalla cura del rimandare
l’uno all’altro. Invitando non certo a un “ascolto retrospettivo”, e piuttosto
porgendo un regalo dopo l’altro per un ascolto sempre orientato al presente e
all’immediato futuro, Dalberto cura il filo prezioso delle voci interne, magari
evidenziate solo dall’accenno di un timbro diverso o da una minima inflessione,
che di presso possono diventare linea principale (come nel contralto subito
prima della ripresa), oppure condurre un loro discorso concomitante ma
autonomo. In tal modo l’esecuzione supera e cuce le nette scansioni
fraseologiche delineate dalla linea principale, instaurando un flusso continuo
immerso in un’agogica palpitante e in un senso timbrico fuso con la verticalità
(dove l’accordo tende a sua volta all’autonomia, a diventare significativo di
per sé e padrone ultimo, che può delegare alle linee i mandati
dell’aggregazione). Se il primo movimento è come un nastro che srotola i suoi
tesori, bellissimo è anche il tempo centrale, Mouvement de Menuet, a partire dall’attacco in cui il gioco
contemporaneo di due eventi disegna un arabesco di linee non gerarchizzate ma
paritariamente dipanate. La brillante esecuzione del movimento finale, in linea
con le premesse, chiude la prima parte del concerto, dove la Sonatine – sommata agli splendori sonori
dei precedenti Miroirs – restituisce
una cifra di rara se non unica capacità di far convivere le diverse
inclinazioni raveliane. A rigore l’accoppiata Miroirs/Sonatine proporrebbe
la contrapposizione di impressionismo e neoclassicismo, ma il Ravel di Dalberto
risulta allo stesso tempo sia sfaccettato nelle sue anime che unitario.
Soprattutto, è unitario nel sollecitare un’esperienza di ascolto fluida, come
scansione di attimi connessi.
Dopo l’intervallo, è il momento della beethoveniana op. 57
(di Schumann riferiremo dopo). Un pianista che restituisce con tanto giudizio
la forma e la trama della Sonatine di
Ravel non può non essere un classicista inappuntabile. Ma se si guarda con
attenzione al repertorio classico di Dalberto, sorge il sospetto di una
predilezione trasversale all’interno della “famiglia” stratificata e poderosa
che si definisce “stile classico viennese”. In uno stemma di famiglia senza
eguali (Haydn, Mozart, Beethoven… più Schubert), la forma musicale della
classicità viennese ha una declinazione di insieme peculiare: cioè così
costantemente agganciata all’organicità strutturale da poter turbare i pensieri
più bergsoniani di Jankélévitch. Il trionfo della unitarietà tematica e dei
procedimenti di sviluppo, e la proiezione su larga scala del nesso
dissonanza/risoluzione, costituiscono i segni di elezione dello stile classico,
e nel riconoscerli oppure emularli consistono il vanto e la ragione di vita
rispettivamente di eminenti teorici, da Marx a Schenker, e di altri musicisti,
a cominciare dalla cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna” (che però fraintende
la “Prima”, nel senso di rimuovere la tonalità considerandola come un dato
superabile di quell’eredità). Ciò non toglie che la tendenza associativa – che nella musica reale
non la dà mai vinta del tutto a quella sintattica
– resti pur sempre presente, come una figlia minore esclusa dal maggiorascato
ma indispensabile alla tavola comune. Al punto che la lente d’ingrandimento di
alcuni studiosi acuti scopre interessanti distinzioni interne allo stile
classico proprio in ordine alla presenza della “figlia” più trascurata, cioè
della tendenza additiva. E proprio qui troviamo più di una corrispondenza con
le preferenze di Michel Dalberto. Friedrich Blume distingue l’arte di Mozart da
quella di Haydn sulla base della prevalenza di un succedersi di motivi non
imparentati (dove invece in Haydn Blume mette in rilievo la predominanza dello
sviluppo), ma associati sulla base di una organicità che si coglie a posteriori e dipende da un’ampia gamma di
condizioni: melodiche, armoniche, ritmiche, espressive. Dalberto ha eseguito
tutti i Concerti di Mozart. Quanto a Beethoven, gli aspetti di regolarità ampia
e squadrata che connotano il suo primo stile, lo rendono ben più additivo
rispetto al periodo centrale che «torna decisamente alle forme chiuse, concise e
drammatiche di Haydn...» (Rosen). Dalberto ha inciso tutte le Sonate pianistiche
del primo periodo di Beethoven (anche se non trascura del tutto le altre
sonate). Riguardo Schubert, è pacificamente accettato che la “figlia minore”
osi qui addirittura rinnovare la famiglia e cambiare di segno l’eredità per i
posteri: l’arte di Schubert si snoda in un rapporto dialettico con il
linguaggio classico, sia per l’erompere insopprimibile delle medianti
nell’armonia, con conseguente polarizzazione mediantica di vaste sezioni della
musica, sia per la tendenza ad utilizzare temi lirici
dalle forme quasi chiuse. Tutto ciò investe anche i brani in forma-sonata,
latori di una temporalità diversa dal modello beethoveniano e dal suo
teleologismo formale. Dalberto, unico tra i pianisti in circolazione,
ha inciso tutta la musica per pianoforte di Schubert!
Torniamo al programma del concerto di Messina: nessuna
analisi manca di rilevare il plesso unitario di coerenza e drammaticità da cui
sgorga l’incredibile movimento iniziale della beethoveniana op. 57, insieme
rivoluzionario e radicalmente classico. La cellula ossessiva e ricorrente del
basso (una terzina di re bemolle ribattuti che scende su do) racchiude anche il piano armonico
del primo movimento, dove la relazione di armonia napoletana si afferma e si
integra in un terreno che finora le era stato precluso: lo choc di un primo tema che subito viene ripetuto mezzo tono sopra
continua dopo oltre 200 anni a interpellarci e inquietarci come una sfinge che
flirta col regno delle ombre. I tedeschi non perdono occasione per magnificare
la suprema coerenza dell’arte di Beethoven, al punto che la più autorevole
delle edizioni in circolazione, la Henle, appone una nota di apparato critico
alla prima pagina della Sonata op. 57
che fa l’effetto di una bandiera tedesca sventolata sulla nazionale di calcio
in teutonica concentrazione mentre risuona l’inno. Poiché le legature sono
segnate in maniera non uniforme sia nell’autografo che nella I edizione, i
revisori hanno infatti ritenuto conveniente intervenire sul fraseggio,
uniformandolo («sie wurde überall sinngemäß vereinheitlicht»). Tutto
deve essere coerente! Un’arte così profondamente organica come quella di
Beethoven non cede se non per errore di notazione – secondo quei revisori –
alle sirene di una pur minima inflessione differenziante in ciò che si presenta
razionalmente omogeneo. A ben guardare, invece, elementi sequenziali e
additivi, e quindi anche una correlata e flessibile varietà nell’unità – si
osservi come tutto ciò se la intenda con la “figlia minore” dello stile
classico –, sono presenti anche nell’op. 57. Vi si ravvisa un discorso
parallelo che non appare subito, a fronte della spettacolare messa in forma di
un continuo sviluppo consequenziale, per lo stesso motivo per cui la lettera
rubata sfugge allo sguardo dei protagonisti in un celebre racconto di Poe: è
assolutamente in vista! Di fatto per quattro volte (esposizione, sviluppo,
ripresa e coda) il primo movimento dipana i temi nello stesso ordine. Le
sezioni però non solo sono attraversate da un’unificante linea teleologica, ma
tendono anche a compenetrarsi vicendevolmente: epocale lo “scandalo” di una
ripresa di sonata su armonia di quarta e sesta, mentre nel basso il ribattuto
di terzine fa in modo che il tumulto dello sviluppo invada la ripresa in modo
sostanziale oltre che per gli aspetti di instabilità armonica. Un altro momento
memorabile di sintesi tra sviluppo e additività sequenziale è all’avvio della
coda, quando il motto ossessivo per la prima volta risolve alla tonica. Il
secondo movimento dell’op. 57 è un tema con variazioni, con un continuo
incremento di velocità, mentre il finale – dove il moto perpetuo è già indicazione
di continuità additiva – è un rondò-sonata con un caratteristico ritornello non
dell’esposizione ma dello sviluppo e della ripresa, fino alla coda travolgente
dove tutto il mondo cade a precipizio verso il registro grave della tastiera.
Per diversi motivi – compenetrazione di diversi regimi
formali da organizzare ma anche gestire istintivamente, ethos eroico e tragico, virtuosismo e valori sonoriali spinti fino
alla sensualità timbrica – l’op. 57 si addice a Dalberto. Effettivamente, la
sua esecuzione non può passare inosservata. Di contro a ogni uniformazione iper
razionale, restio a porgere la musica come un teorema, Dalberto mostra
nondimeno anche una lucidissima visione della struttura quando serve per
rendere convincente quella flessibilità a cui non rinuncia neanche qui. Basti
ad esempio il memorabile inizio del II movimento: tutti suonano espressivamente
la sottodominante del tempo debole della prima misura, anticipando l’enfasi
prevista dallo sforzato posto da Beethoven alla quinta misura. Lo fa anche
Dalberto, in maniera decisa su entrambe le sottodominanti, e suona il resto
della frase come una chiusura, compresa la sesta eccedente sull’ultima
suddivisione della sesta misura e la nona di dominante sul primo movimento
della settima misura. Ma ecco la prima variazione: contrattempo tra destra e
sinistra. Beethoven non segna nessuno sforzando, ma questo è forse un motivo
per non uniformare il senso complessivo della prima variazione a quello del
tema? No, e infatti tutti uniformano. Dalberto non la pensa così: espone le
prime cinque misure del tema variato in contrattempo con un senso di placida
attesa, e poi anima la chiusura della frase in una vertigine di cromatismo che
parte dal basso. Semplicemente bellissimo; ma in fondo, se si legge bene (che è
la cosa più difficile) è già tutto prescritto da Beethoven. Non lo si nota, ma
qui non solo manca lo sforzato, non solo il ritmo sincopato del basso tende a
spostare in avanti la tensione, ma nel momento decisivo al basso invece di si con due bemolle troviamo la naturale. La tensione lineare delle
sincopi ha cambiato le funzioni armoniche: non più dominante, poi sesto grado e
ancora dominante, ma un’unica dominante in condizione di momentanea ma
intensissima ebbrezza semitonale delle parti. (Non bisogna far sapere queste
cose ai revisori della Henle: non sia mai che decidano di ristampare
“uniformando”, aggiungendo qualche segno di sforzato o non permettendo al si con due bemolle di ripresentarsi come
la naturale). Sulla stessa linea di
eccellenza delle intenzioni e della realizzazione è anche il finale della Sonata op. 57, e appena meno convincente
il I movimento, ricco di idee ma a volte non abbastanza equilibrato
nell’incisività della mano destra a fronte delle cose interessanti, fin troppe,
che Dalberto trova dall’altro lato. Ma qualche scotto a una disposizione che si
mantiene sempre viva e fluida bisogna pur pagarlo. Non si dimentichi che
Friedrich Gulda andava volentieri ai concerti dell’immenso Cortot perché non
gli risultava mai «prevedibile». Altri tempi… di cui è piacevole quanto raro
risentire il profumo.
Abbiamo lasciato per ultimo Schumann, che in realtà ha
costituito la sontuosa cornice del concerto. Dopo aver aperto il concerto con i
Phantasiestücke op. 12
e dopo un primo bis dedicato a uno dei brani più amati di Schubert (Improvviso op. 90 n. 3), Dalberto ha
sfoderato per concludere il Sogno
dalle Scene infantili op. 15, in un’esecuzione di bellezza quasi insostenibile.
Anche qui, come nei Phantasiestücke proposti
all’inizio, si avvertono i fondamentali francesi di Dalberto: pianisticamente in una
tecnica del suono scaltrita à rebours
dalle sottigliezze di Debussy e Ravel (che scrivono per un pianoforte molto più
simile a quelli di oggi rispetto agli strumenti utilizzati da Schumann);
culturalmente in una lettura che tende a mediare i contrasti, inclinando a una
visione del “fantastico” romantico declinato sotto l’aspetto del sogno più che
sotto quello del realismo magico. In questo senso, la lettura dei Phantasiestücke di Dalberto si avvicina a
quella dei Miroirs raveliani eseguiti
subito dopo – dove l’evocazione di ombre metafisiche vince di gran lunga sul
pretesto descrittivo –, venendo quindi richiamata e riassunta dal mirabile
ultimo minuto del concerto, quando l’onirismo dichiarato nel titolo
schumanniano ha esibito con rara intensità quei gradi maggiori di “verità” che
la trasmutazione della grande arte suole rivendicare sulla realtà. Applausi
strameritati.
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