Rigoletto occhieggia alle serie televisive:
la prima volta di Turturro nella lirica
di Santi Calabrò
Posto al crocevia tra concezioni drammaturgico-musicali tanto apparentemente inconciliabili sulla carta quanto suscettibili di rendere produttiva la loro coabitazione se maneggiate dal genio di Verdi, Rigoletto continua a esercitare il suo fascino come uno dei titoli più interessanti e amati del repertorio operistico. La nuova produzione andata in scena al Teatro Massimo di Palermo – allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino, l’Opéra de Wallonie Liège e la Shaanxi Opera House – si distingue subito per l’impatto visivo di tutto rilievo: John Turturro, noto attore e regista cinematografico al debutto nella lirica, e lo scenografo Francesco Frigeri, immaginano una corte della fine del XVIII secolo, «l’epoca di Cagliostro, della massoneria e dell’occultismo, in un palazzo rinascimentale derelitto» (Turturro). Le scelte adottate e i corollari simbolici appaiono pertinenti, proiettando un’aura grandiosa, misteriosa e decadente su un’opera che scandaglia i recessi dell’anima ed è intessuta di trame segrete. Alcuni costumi dei personaggi e certe soluzioni nel modo di presentarli possono sorprendere a prima vista, ma a ben guardare incrociano in maniera intrigante sia i significati dell’opera che lo stile dell’allestimento. Sparafucile che sembra Jaqen H'ghar (inquietante dispensatore di morte del Trono di Spade), unisce le qualità di un’allusione trendy e quelle di una connotazione adatta. E quando nell’epilogo entra in scena Gilda con l’atteggiamento dei fantasmi di Ghost Whisperer – mentre Rigoletto si dispera perché l’ha trovata morente in un sacco – lo stupore si trasforma subito in sollecitazione intellettuale: Gilda nel finale canta essendo più morta che viva, immaginare che sia già del tutto morta è un bel colpo di teatro. Persino la trovata a prima vista più balzana costringe progressivamente a riflettere sull’assunto più profondo dell’opera: a un certo punto della festa iniziale entra a corte un tipo pittoresco, con un parruccone improbabile, una tunica rossa, una collana vistosa. Sarà una comparsa? Un gran maestro di non si sa quale rito massonico? è Monterone! La “maledizione” viene così spogliata di ogni realismo, e costringe a focalizzare meglio sull’essenza dell’opera: Monterone simboleggia un fato terribile ma giusto e Rigoletto merita il suo destino perché – da padre per un attimo smemorato e trascinato dall’esercizio della sua professione di corrosivo buffone di corte – irride il sentimento sacro della paternità. Di fatto, non sono forse tutti i personaggi dell’opera a condividere questa sacralità? Persino nel sistema di potere assoluto e immorale incarnato dal Duca c’è una bella differenza tra insidiare la moglie di un altro e sedurre una giovane innocente. Monterone, infatti, può lanciare un bel po’ di invettive prima che il Duca – colto sul fatto – reagisca; non si hanno notizie di altri tentativi di approccio del Duca verso Gilda dopo che anche lui avrà saputo, come i cortigiani, che è la figlia di Rigoletto; la rivelazione in scena – “Io vo’ mia figlia!” – sconvolge i cortigiani (e in poche regie la cosa è evidente e ben sottolineata come qui con Turturro); infine, il legame padre/figlia riceve la più spettacolare celebrazione nella tragedia sacrificale di Gilda, che decide veramente il da farsi quando si prospetta non solo l’uccisione del Duca, che ella non riesce a odiare, ma la possibilità che al suo posto venga trucidato lo stesso Rigoletto. Oltre alla recitazione curata, anche le caratteristiche vocali e le scelte stilistiche dei cantanti, che abbiamo ascoltato nell’ultima replica della produzione, dialogano con i fondamentali dell’opera e con le scelte della regia. A volte l’interazione non è felice, soprattutto nel I atto: se Ruth Iniesta canta bene in generale, tende a non cogliere in Gilda, prima del fattaccio, la dimensione di ragazza innocente e ingenua al cospetto dei primi palpiti. Questa Gilda appare subito, già vocalmente, come una donna innamorata e smaliziata, e quando il regista la fa muovere in un certo modo o le mette in mano un fiore sembra pronta per l’Habanera di Carmen. Meglio, decisamente, la Iniesta nel finale del II atto e nel III atto. Luca Titotto (Sparafucile) è un cantante elegante, ma sviluppa il duetto con Rigoletto, sempre nel I atto, atteggiandosi e cantando a metà tra le insinuazioni di Jago e la doppiezza sfuggente del personaggio di serie televisiva che il suo look richiama. Evapora, inevitabilmente, la tinta noir ante litteram del duetto: Sparafucile uccide per soldi, mica per sport, è un sicario e non un orditore di trame. Non a caso sua sorella, Maddalena (qui interpretata con efficacia da Martina Belli, vestita a sua volta come una dark lady), dovrà insistere per renderlo un po’ più “elastico”. Il protagonista George Petean esibisce una bella vocalità, più adatta a cogliere il dolore paterno che le oscurità cattive di Rigoletto (non abbiamo sentito nell’occasione Leo Nucci, applaudito in altre repliche della stessa produzione, ma immaginiamo che il suo Rigoletto sia stato esattamente all’opposto). Nel ruolo più “facile” dell’opera, quanto a caratterizzazione del personaggio, quello del Duca, si disimpegna bene Stefan Pop. Per essere un buon Duca di Mantova basta avere i mezzi, lo slancio e il sentimento convenzionale di un tenore, numeri che Pop ha mostrato di possedere. Stefano Ranzani dirige puntando a far emergere più la drammaturgia in cui la musica illumina la parola – essenzialmente quella del protagonista – che quella delle forme chiuse in cui la musica si impossessa del testo. In generale, Ranzani tende a far scorrere e a cucire: a volte va bene, altre si desidererebbe una maggiore intensità espressiva. Il successo nelle varie repliche è un buon avvio per questa produzione, che magari nel prosieguo in altri teatri calibrerà meglio qualche scelta registica. Gilda che apre il vestito bianco e mostra una tunica vermiglia – all’uscita dalla stanza dove i cortigiani l’hanno rinchiusa e il Duca l’ha violentata – resterebbe un fraintendimento del personaggio persino se il soprano cantasse in modo da apparire “pura siccome un angelo”.
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