mercoledì 20 luglio 2011

Schönberg, Quartetto op. 7: un'analisi di Alban Berg (2ª parte)

Anche se questa melodia potrebbe sfuggire a qualcuno senza danneggiare l’impressione generale, è inconcepibile che vi possa essere qualcuno che afferri anche la parte iniziale dell’idea principale se non ascolta il canto espressivo della linea del basso. E questo può facilmente accadere, dato che questa melodia è divisa in due frasi, questa volta di tre battute ognuna (es. 35). 

Perché questo non avvenga – qualora non si senta la bellezza di tali temi (e di questa musica in generale) con il cuore – questa melodia richiede sia la facoltà di ascolto quantomeno di un orecchio esterno capace di mantenere traccia di tutte le voci così pregnanti nei loro differenti caratteri, sia quella di riconoscere tanto gli inizi quanto le conclusioni (che sono tutte in punti differenti) di tutte quelle parti di melodie di differente lunghezza, sia di sapersi soffermare sul loro risuonare insieme.
E ancora, tale melodia richiede la facoltà di ascolto di un orecchio che si è posto l’obiettivo più difficile dal punto di vista ritmico, che – qui e dappertutto nella musica di Schönberg – raggiunge un grado finora mai udito di varietà e differenziazione. Si osservi la parte di violoncello or ora citata: come una scala saltellante di crome puntate sia stata sviluppata fin già dalla settima battuta dopo la lunga frase in legato. Due battute dopo ascoltiamo per contrasto le pesanti semiminime del tema di sette note che salgono su con furia in quarte e terze alternate (Mib, Lab, Do, Fa, La, Re, Fa#). Già sono stati esposti due importanti componenti motiviche del Quartetto. E in che modo tutte queste forme ritmiche sono state condotte in relazioni contrappuntistiche con le altre parti (che si sviluppano con valori di note e relazioni del tutto differenti)!
Si dovrebbe essere completamente sordi o molto maliziosi per descrivere una musica che manifesta una simile ricchezza di ritmi (e in forma così concentrata sia in successione che simultaneamente) come “a-ritmica”. Se si vuole riferire questa parola a tutte le relazioni di tempo e di valori che non sono direttamente derivabili dal movimento meccanico (ad es., ruote di mulino o treno) o dal movimento del corpo (come marciare, danzare ecc.), allora certamente possiamo chiamare “a-ritmica” tutta la musica di Schönberg. Ma allora questa stessa parola deve essere anche applicata alla musica di Mozart e a tutti i maestri classici, eccetto quando essi di proposito mirano a ritmi uniformi e quindi facilmente comprensibili, come nelle loro danze e movimenti derivati da antiche forme di danza (scherzo, rondò ecc.). Oppure è “a-ritmica” nel senso di opposta a qualche “ritmo” che non è più un concetto musicale, ma un concetto come “ethos”, “cosmo”, “dinamica”, “mentalità” e altra parole-chiave della nostra epoca, le quali possono essere applicate ‘in ultima analisi’ ovunque vi sia qualcosa in movimento, nell’arte o nello sport, in filosofia o nell’industria, nella storia o nella finanza! Un concetto come questo, che non sorge più dalle forme in movimento della musica ma è applicato a qualcosa di vago, qualcosa di indefinibile in termini musicali, e che abilita a parlare del ritmo di un brano di musica nello stesso modo in cui si potrebbe parlare del ritmo di una recente crisi finanziaria – un concetto come questo resta semplicemente fuori dalla questione per chiunque voglia tenere conto dell’azione ritmica, sorgente dai dettagli musicali, che si estende per un’intera opera. Il fatto che una tale diluizione di concetti possa diventare moneta corrente -  anche tra coloro i quali non ci si aspetterebbe di trovarla: tra alcuni compositori! – prova solamente quanto sia difficile per una musica che voglia essere commisurata solo con gli standard della sua arte (e non con gli standard di qualche mera “attitudine”), quanto sia difficile per una tale musica essere compresa.




E questo ci porta di nuovo al reale obiettivo della mia ricerca: la difficoltà di comprendere la musica di Schönberg. La difficoltà nasce dalla ricchezza della musica – come abbiamo visto or ora – nelle bellezze tematiche, contrappuntistiche e ritmiche. Rimane solo da parlare della ricchezza armonica di questa musica, dell’incommensurabile cornucopia di accordi e connessioni accordali che non sono altro che il risultato di una polifonia (cosa che dobbiamo ugualmente qui valutare) che è davvero straordinaria nella musica contemporanea. Vale a dire che una tale armonia è il risultato di una giustapposizione di voci, distinte da una mobilità finora mai udita nella linea melodica. E così questo eccesso di eventi armonici è esattamente mal compreso come qualsiasi altro elemento. E di certo ciò è esattamente sbagliato!
Questo passaggio (es. 36) nello stile del Corale non è solo la base accordale degli archi a lunga gittata di un Adagio, cosa che si può ben immaginare. No; è semplicemente lo scheletro armonico dell’inizio così discusso di questo Quartetto.
Sembra incomprensibile che qualcosa di così semplice non possa essere compreso, anche se d’altro canto ad un primo ascolto avido di sensazioni potrebbe apparire come un orgia di dissonanze. E solo il fatto che un numero così insolito di tanti differenti tipi di accordi sono adattati insieme nel ristretto spazio di dieci battute di un animato alla breve può spiegare perché un orecchio – nemmeno troppo rovinato, a paragone della relativa povertà di altra musica contemporanea – non sia all’altezza del compito di digerire una sequenza di cinquanta o più accordi in pochi secondi, e perciò presuma vi sia una “ipertrofia” laddove essa è semplicemente ricca fino a debordare.  Infatti, come l’ultimo esempio sembra dimostrare, la costituzione degli accordi e le loro rispettive combinazioni non possono essere responsabili per la difficoltà sperimentata nel comprenderli. Non vi è una sonorità singola, neppure sulle semicrome non accentate di queste prime 10 misure del Quartetto, che non possa essere immediatamente chiara per qualsiasi orecchio educato nell’armonia dell’ultimo secolo. Anche riguardo i due accordi per toni interi (segnati con asterischi), con le loro preparazioni e risoluzioni cromatiche, nessuno oggi potrebbe ritenersi moralmente oltraggiato da simili cose senza sentire uno scoppio di risate dall’intero mondo musicale.
Da ciò possiamo anche vedere quanto sia irrilevante – e lo era sempre – parlare (nel giudicare la musica di Schönberg) di quanto il movimento delle voci, malgrado tutto, sia diventato moderno, e come esso ignori le sonorità che ne derivano. Ciò che io ho mostrato riguardo queste dieci battute può essere dimostrato ugualmente in qualsiasi passaggio di questo brano. Anche gli sviluppi armonicamente più arditi sono ben lungi dall’essere terreno fertile per sonorità incontrollabili e casuali.
Il caso non trova spazio qui, e chi non dovesse riuscire a seguire dovrebbe arrossire di vergogna, affidandosi invece all’orecchio di un maestro che poteva concepire tutte queste cose che appaiono così difficili a noi con la stessa facilità con la quale egli risolve i più complicati esercizi di contrappunto davanti agli occhi dei suoi allievi, come se egli stesse facendo un giuoco di prestigio tirando fuori l’asso dalla manica. Una volta gli venne chiesto se “avesse davvero ascoltato bene” un passaggio in una delle sue composizioni che era particolarmente difficile da capire. Schönberg rispose con una battuta che contiene una profonda verità: “Si, mentre lo stavo componendo!”.
Un modo di scrivere condizionato da una musicalità così incrollabile contiene tutte le possibilità compositive, e perciò non può essere completamente scandagliato. Neppure dal punto di vista teoretico. Finora i risultati della mia analisi (e mi piacerebbe molto che fossero completi) non hanno affatto esaurito le possibilità di queste poche misure. Per esempio, dobbiamo ancora aggiungere che queste voci, inventate fin dall’inizio in relazione di contrappunto doppio, permettono una molteplice varietà anche dal punto di vista della tecnica polifonica, a questo naturalmente giunge a buon fine in varie riprese dell’idea principale. Dapprima le melodie del violino e del violoncello cambiano posizione (dato che tutte le ripetizioni meccaniche sono evitate anche in queste prime opere di Schönberg). Presentato graficamente: le linee che appaiono nelle prime battute del Quartetto nella posizione verticale

1
2
3

sono più tardi presentate (pag. 5 della partitura) nell’ordine

3 (in ottave)
2
1

Al loro terzo ingresso (pag. 8), le voci secondarie sono già variate, anche se le note della melodia sono mantenute strettamente uguali. Qui l’ordine è

2 (variante in semicrome)
1 ( in ottave)
3 (ornato con terzine di crome)

Infine, nell’ultima ripresa dell’idea principale (pag. 53), sia la voce principale che le secondarie – per non dire delle innumerevoli combinazioni con altri temi del brano – appaiono nel seguente ordine:

3 (variante in terzine di crome, ma diversa dalla precedente)
1 (in ottave)
3 (inversione per diminuzione in crome)

Ma queste prime dieci misure e le loro ripetizioni variate rappresentano una frazione davvero molto piccola dell’opera, che dura circa un’ora. Esse possono solo dare una piccola idea delle occorrenze armoniche, polifoniche e contrappuntistiche (in un eccesso mai ascoltato dall’epoca di Bach), che proliferano in maniera lussureggiante nelle migliaia di battute di questa musica. Si può asserire, senza paura di esagerare: ogni più piccolo cambio di frase, ogni figurazione di accompagnamento è significativa per lo sviluppo melodico delle quattro voci, e il loro mutare costantemente ritmo è, per dirla in una sola parola, tematico. E tutto ciò avviene all’interno di un ampio movimento singolo di natura sinfonica, che è del tutto impossibile da analizzare superficialmente nello spazio di questa indagine.
Non è sorprendente che un orecchio abituato alla musica dell’ultimo secolo non possa seguire un brano di musica nel quale simili cose sono all’ordine del giorno. La musica del XIX secolo è quasi sempre omofonica; i suoi temi sono costruiti simmetricamente in unità di due o quattro battute; le sue elaborazioni e i suoi sviluppi sono per lo più impensabili senza un eccesso di ripetizioni e sequenze (generalmente meccaniche), e infine questo condiziona la relativa semplicità dell’azione armonica e ritmica. Decadi di abitudine a questo hanno reso l’ascoltatore moderno incapace di comprendere musica di un diverso tipo. Egli viene irritato da simili cose, come un revival di qualche tecnica artistica ormai divenuta una rarità, o da deviazioni – anche in solo uno di questi ambiti musicali – da ciò che solitamente è usuale, anche se queste deviazioni sono perfettamente ammissibili dal punto di vista delle regole. Ora si immagini la posizione dell’ascoltatore quando (come nella musica di Schönberg) noi troviamo – unite e simultanee – tutte queste proprietà che sono altrimenti considerate i valori della buona musica, ma che generalmente spuntano solo singolarmente e ben distribuite tra le varie epoche musicali.
Si pensi alla polifonia di Bach; alla struttura dei temi, spesso del tutto libera dal punto di vista costruttivo e ritmico, dei compositori classici e preclassici, e al loro estremamente abile trattamento del principio della variazione; si pensi ai Romantici, con le loro audaci giustapposizioni (che risultano ancor oggi audaci) tra tonalità lontane; alle nuove formazioni accordali in Wagner, giunte all’alterazione cromatica e alla trasformazione enarmonica, e alo loro essere naturalmente incorporate nella tonalità; e, infine, si pensi all’arte dell’elaborazione tematica e motivica di Brahms, spesso così minuziosa da penetrare nei più piccoli dettagli.
E’ chiaro che una musica che unisca in sé tutte queste possibilità che i maestri del passato hanno lasciato dietro di loro non solo sia diversa da una musica contemporanea in cui tali combinazioni non sono riscontrabili (come mostrerò); nonostante le proprietà che abbiamo riconosciuto come valori della buona musica, e nonostante la sua eccessiva ricchezza in tutti i parametri musicali, o, piuttosto, a causa di ciò, una tale musica risulta difficile da comprendere. E infatti la musica di Schönberg lo è.
Sarò rimproverato per aver provato qualcosa in questa indagine in cui non sono state presentate prove a favore; precisamente la difficoltà del Quartetto in Re minore, un’opera “tonale” che non è più un problema da molto tempo, un brano in realtà che, al contrario, è stato generalmente riconosciuto e quindi “compreso”!
Bene, anche la validità di ciò è discutibile. Ammetto che la domanda posta all’inizio di questo articolo potrebbe avere davvero risposta se io dimostrassi ciò che ho fatto vedere sulla base di queste poche battute in tonalità minore, in riferimento ad almeno un esempio della cosiddetta musica “atonale”. Ma non si trattava solo di una questione sulla difficoltà, ma anche – come i lettori della mia analisi si saranno resi conto – della questione di provare che i mezzi costitutivi di questa musica, nonostante il fatto che molto in essa si sente come particolarmente difficile da comprendere, sono tutti giusti e propri: giusti e propri, naturalmente, in connessione con la più elevata arte! E questo è stato naturalmente più facile da dimostrare in riferimento ad un esempio radicato nella tonalità maggiore/minore, ma nondimeno – un vantaggio in questa connessione – ha causato molta indignazione al suo apparire, come la musica “atonale” causa oggi. Ma, giunti a questo punto, in cui io considero quest’ultima “esistente” esattamente come la precedente (e la atonalità esiste, non solo grazie all’opera di Schönberg, “il padre del pensiero atonale” come è generalmente chiamato, ma grazia anche al lavoro di una grande parte del mondo musicale), tutto quello che ho bisogno di fare è proiettare ogni cosa che ho detto sulle prime dieci misure del Quartetto in qualsiasi altro passaggio nelle sue composizioni successive e più recenti. La domanda del nostro titolo ha quindi una risposta equivalente qualora si produca evidenza che i mezzi di questa musica sono ugualmente giusti e propri rispetto all’arte più elevata. Sarà quindi chiaro che la difficoltà di comprensione non è causata tanto dalla cosiddetta “atonalità”, che nel frattempo è diventata il modo espressivo di così tanti compositori contemporanei, ma anche dagli altri aspetti della struttura della musica di Schönberg, dalla pienezza dei mezzi artistici applicati qui e dappertutto anche nello stile armonico, dall’applicazione di tutte le possibilità compositive tramandate da secoli di musica, e per dirla in breve: dalla sua incommensurabile ricchezza.
Qui troviamo la stessa molteplicità nell’armonia, la stessa definizione multilivello della cadenza; qui troviamo anche la costruzione dei temi asimmetrici e completamente liberi, insieme con un infaticabile lavoro motivico; ancora, l’arte della variazione, correlata sia all’elaborazione tematica e all’armonizzazione che al contrappunto e al ritmo di questa musica; qui troviamo la stessa polifonia che si estende sull’intero lavoro, e l’inimitabile tecnica contrappuntistica; infine, troviamo qui anche la diversità e la differenziazione dei ritmi, dei quali possiamo solo dire ancora una volta che, oltre ad essere soggetti alle proprie leggi, essi sono soggetti anche alle leggi della variazione, a quelle dell’elaborazione tematica, al contrappunto e alla polifonia. Così, anche in questo campo Schönberg perviene ad un’arte della costruzione che prova quanto sia sbagliato parlare di una “dissoluzione del ritmo” nella sua musica.
Considerato da un simile punto di vista universale, quanto fondamentalmente è diversa l’immagine degli altri compositori contemporanei, anche coloro il cui linguaggio armonico ha rotto il dominio della triade. I mezzi musicali elencati sopra possono naturalmente essere dimostrati anche nella loro musica. Ma non li troveremo mai, come in Schönberg, uniti nell’opera di una singola persona, ma distribuiti tra i vari gruppi, scuole, generazione e nazioni con i loro rispettivi rappresentanti.
Un compositore può preferire uno stile di scrittura polifonico, ma riduce la sua elaborazione tematica e l’arte della variazione ad un minimo. Un altro può scrivere in un audace stile armonico e non si tira indietro da altre combinazioni di toni, ma ha posto solo per melodie che difficilmente superano l’omofonia e sono per di più caratterizzate dall’uso esclusivo di frasi di due o quattro battute. L’”atonalità” di un altro compositore consiste nell’inserire falsi bassi sotto periodi armonizzati precedentemente; altri scrivono in due o più  tonalità simultaneamente (maggiori o minori), ma le procedure musicali che si trovano all’interno di ognuna di esse spesso rivelano una sconcertante povertà di inventiva. La musica caratterizzata da una melodia ricca e piena di movimento e dalla libera costruzione dei temi, si ammala a causa di una pigra armonia, i cui sintomi possono essere: povertà nel movimento intervallare, accordi tenuti a lungo, pedali senza fine, e progressioni armoniche che si susseguono in perpetuo. Una musica di questo tipo – posso quasi asserirlo positivamente come proposizione generale – non può sopravvivere senza un minimo di ripetizioni meccaniche e, spesso, con l’uso di una procedura sequenziale fra le più primitive. Questo è particolarmente valido per il ritmo, confinante con la monotonia, in cui una profusione di spostamenti e cambiamenti di metro maschera la povertà della musica.
Il ritmo – ora rigido, ora martellante, ora danzante (e altri tipi di animazione) – fornisce più spesso di come si potrebbe pensare l’unico appiglio per una musica che è altrimenti completamente non consequenziale. Ed è ai rappresentanti di questa tecnica compositiva che ci si riferisce generalmente come a dei “compositori fortemente ritmici”. Anche la musica “atonale” o altrimenti “orientata progressivamente” armeggia per essere accettata e riesce anche a diventare relativamente popolare, grazie alla sua fedeltà a simili principi più o meno stabiliti, a simili esagerate parzialità, e grazie al fatto che essa soddisfa se stessa con il suo essere “moderna, ma non oltre”.
E anche se uno o più aspetti di questa musica presentano all’ascoltatore un compito difficile, essa aderisce così strettamente al convenzionale in tutti gli altri aspetti – essendo spesso di proposito “primitiva” – che tale musica ha il suo fascino per le orecchie di chi possiede un moderato discernimento musicale, proprio in ragione di quelle proprietà negative. Essa affascina tanto più perché gli autori di tale musica, per essere stilisticamente puri, devono fare attenzione alle conseguenze di una sola loro particolare caratteristica di modernità, e non sono obbligati a trarre conclusioni dalla combinazione di tutte queste possibilità. L’ineludibile compulsione che consiste (mi ripeto) nel trarre le estreme conclusioni da una universalità musicale scelta autonomamente può essere trovata solo in un posto, ossia nelle composizioni di Schönberg. Nel dire ciò, ritengo, sto producendo l’ultima e forse più forte ragione per la difficoltà nel comprenderlo. La circostanza che questa nobile compulsione si sia presentata per la sovranità degna del genio mi giustifica – come qualsiasi cosa che ho detto sulla maestria di Schönberg, ineguagliata da tutti i suoi contemporanei – nella supposizione, anzi nella certezza che qui abbiamo a che fare con il lavoro di uno dei davvero pochi maestri che porteranno il titolo di “classico” per sempre, per molto dopo che “i classicisti del nostro tempo” siano diventati roba del passato. Non solo egli ha “tratto le ultime e più audaci conclusioni dalla cultura musicale tedesca” (come Adolf Weissmann giustamente afferma nel suo libro Die Musik in der Weltkrise[1]), egli è andato oltre rispetto a coloro che cercano ciecamente nuovi percorsi e – consciamente o inconsciamente – chi più chi meno, negano l’arte di questa cultura musicale. Così oggi, nel 50° compleanno di Schönberg si può dire, senza dover essere profeti, che l’opera che egli ha finora presentato al mondo assicura non solo il predominio della sua arte personale, ma, ciò che è più importante, quello della musica tedesca per i prossimi cinquanta anni.

Il Quartetto op. 7 su youtube (1/7)
http://www.youtube.com/watch?v=MJmf6x4Q0K8

[1] La musica nella crisi mondiale, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart-Berlin,1922 (n.d.t.).

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