“Viaggio al termine della notte”
non si risparmia niente: un grido d’angoscia costante dal primo all’ultimo
rigo, ma senza un briciolo di autocompiacimento, senza falsi moralismi, senza
chiedere al lettore quella compassione che nemmeno il protagonista, Ferdinand Bardamu,
nutre verso sé stesso. È una vita buia come la notte, e il buio che sperimenta
il protagonista è scosceso, inarrivabile: poco prima della conclusione,
Ferdinand, nel confronto/scontro con un personaggio chiave, Madelon, sostiene che
lei non ha la forza di scendere dove si trova lui: “c’era troppa notte per lei,
intorno a me”.
Bardamu, oltre ad essere l’alter
ego letterario di Céline, ha un doppio anche nel romanzo: Leon Robinson. Entrambi
appartengono alla genìa dei “disgraziati”, e la loro parabola è simile ma
asimmetrica: dagli orrori della Grande Guerra, che lascia ferite nell’animo più
nefaste di quelle del corpo, all’impossibile tentativo di dimenticare nei
bordelli di second’ordine, poi nell’Africa Equatoriale, in improbabili e
grottesche avventure ai limiti della sopravvivenza, al miraggio della Grande
Mela, dove si compie il rito della solitudine in mezzo alla folla; per tornare,
infine, in Francia, per cercare inutilmente di riappropriarsi della propria
vita.
Non c’è solo la notte, anche il
viaggio, ed è l’unico modo per sopportare il dolore e la fatica dell’esistenza-notte.
Ferdinand non è in grado di mantenere un impiego o di sostare in un luogo per
più tempo: le sue partenze sono sempre improvvise, e non resta, al lettore, che
tentare di seguirlo nei suoi deliri e nei pellegrinaggi della gente sconfitta. Il
paragone con Leopold Bloom dell’Ulysses sembra plausibile, a patto di
non rivendicare nessuna preminenza dell’uno verso l’altro. Anche il dublinese
attraversa la sua notte personale, che però dura un arco di tempo ragionevole
da un lato – appena 24 ore – irrazionale dall’altro, perché infarcito da flussi
di coscienza e folli sperimentalismi.
La lingua di Céline è uno
stranissimo e originale mix tra linguaggio di gergo, qui l’argot, e
momenti di introspezione psicologica di finezza estrema (con annesse enormi
difficoltà di resa in altre lingue). Bardamu per tutto il suo viaggio non fa
che distruggere uno ad uno tutti i pilastri dei benpensanti, con annesse
ipocrisie e sventramento autentico della patina di rispettabilità: tutti, nel
privato, secondo la filosofia di Ferdinand, sono sozzi e corrotti, e l’essere
umano non è che un “sottuomo zoppicante”. Egli però subisce, quasi contro la
sua volontà, e contrariamente a Robinson, un’evoluzione, Infatti, tornato dalla
guerra, Bardamu completa gli studi di medicina, ma per un bel pezzo non esercita
la professione, e quando lo fa, la sua situazione non migliora affatto, perché
si mette a curare altri disgraziati come lui. Solo verso la fine del romanzo, l’alter-ego
letterario, Robinson, che lo ha seguito come un’ombra in tutti i viaggi, torna
proprio quando Bardamu ha finalmente trovato una semi-stabilità come direttore
di un sanatorio per alienati. Il finale, drammatico, rivelerà il paradosso della
latente asimmetria tra i due personaggi, e, in una scena tra le più toccanti della
letteratura – proprio perché svuotata di qualunque significato che vada oltre
le crude parole –, raggiunge un’intensità espressiva che sembra anelare al non
detto, all’impossibile riscatto del popolo dei reietti della società, e persino
ad una forma laica di pietà. Ed è al tempo stesso una scrittura di denuncia della
disumanizzazione crescente nella società tra le due Guerre, messaggio valido
per i tempi a venire, non esclusi i presenti.
AFC
Louis-Ferdinand Celine, Voyage au bout de la nuit, 1932, trad. it. di A. Alexis, Dall'Oglio, Milano, 1962. Di questo capolavoro esistono altre traduzioni, come quella, classica,di Ernesto Ferrero, e quella datata di Gian Dauli.