Santi Calabrò
Il Parsifal pacifista di Graham Vick
Da anni Graham Vick si misura a Palermo con Wagner:
offerto dopo la Tetralogia dispiegata dal 2013 al 2016, il Parsifal che
ha inaugurato la stagione 2020 del Teatro Massimo ha quindi costituito una
sorta di coronamento. Le regie di Vick hanno un segno riconoscibile, con
riferimenti all'attualità che circolano da un’opera all’altra: la guerra dei
mondi e delle religioni che cova e spesso esplode dall'inizio di questo
millennio aveva ispirato la conclusione del Crepuscolo degli Dei (dove
l'incendio del Valhalla è causato da jihadisti suicidi provvisti di giubbotti esplosivi), e tale riferimento pervade
per intero questa ultima produzione. La redenzione – tema centrale del Parsifal
– si declina nell'auspicio di una laica pacificazione mondiale, con una
dimensione canalizzata in senso umano piuttosto che mistico.
In generale l'attualizzazione e le trovate originali
di una messinscena operistica sono operazioni che in prima battuta si misurano
con la dimensione reale: con la lettera dei dati dell'opera, amplificati
o forzati, e con la sostanza dei suoi effetti, che ne dovrebbero uscire
potenziati. Ma la stessa attualizzazione può puntare più in alto, cioè al
contenuto ideale dell'opera, postulandone una tale efficacia metatemporale
da favorire il dispiego di mezzi che, legandosi all'orizzonte dello spettatore,
gli rivelino in modo più vivido il plesso di forze che muove un dramma
musicale. Nel teatro di Wagner reale e ideale sono però da intendere
nell'accezione particolare che acquistano per un verso nella sua stessa
teorizzazione, per un altro verso nei problemi di allestimento. A livello della
complessa teoria wagneriana, la musica, unica arte che esprima il sentimento
universale, si giova del mimetismo di altri mezzi (parola e gesto) come tramiti
verso il noumeno che si manifesta solo musicalmente; in questo quadro, dove lo
stesso dramma non segue necessariamente una logica di causa ed effetto, la vera
sede del significato resta sempre la musica. A mettere in pratica tali affascinanti
ma traballanti premesse, si aprono possibilità feconde proprio in ordine alle
crepe della teoria: se non ve ne fossero lo spettacolo wagneriano avrebbe una
sola possibilità di rappresentazione, cioè non sarebbe arte ma tesi filosofica.
E invece le regie wagneriane possono andare a segno con varie impostazioni, da
un prosciugamento dei gesti al mimetismo spinto, fino a un simbolismo che metta
in rilievo proprio la sovrabbondanza feconda di significato della parte
musicale contro la direzione semantica più netta ma più limitata della parola e
del gesto.
In questo Parsifal
di Vick, la linea e i mezzi utilizzati danno risultati diversamente centrati
secondo l’occorrenza drammaturgica che, in quanto scandita dai dati combinati
dell’intreccio e della musica, risponde alle ragioni di un simbolismo eccedente
ma direzionato, rispetto al quale la musica può sovraccaricare ma non mentire.
Gli eventi reali del Parsifal e
quelli narrati sono chiaramente evocati da Vick, spesso con crudo realismo, ma
in subordine alla torsione compiuta in via prioritaria nella costellazione
tematica del Parsifal. Ancora una
volta una scena spoglia ci mostra le quinte (belle?) del Teatro Massimo. In
mezzo al grande piano inclinato su cui si svolge l'azione scorre una lunga tela
scorrevole, sulla quale vengono proiettate le ombre di mimi che agiscono da
dietro, mentre i personaggi dell'opera stanno per lo più davanti alla tela. I
cavalieri hanno la divisa dei marines americani, Kundry piomba in scena
alquanto islamizzata, mentre in mezzo alle divise Amfortas, il sofferente re del Graal, qui
senz’altro redentore da guarire prima che da redimere, è vestito (si fa per
dire) come un Cristo: la sua ferita è una vistosa piaga nel costato e sulla
testa non manca la corona di spine. Parsifal all'inizio si presenta proprio come uno che
passa per caso e uccide un cigno, ma quando nel terzo atto ha assunto
compiutamente il suo mandato appare tutto nero come un combattente dell'Isis, e
la lancia sacra ovviamente non può bastare: ha anche un mitra. A compensare un
eccesso di cattiva coscienza dell'occidente, che sembrerebbe permeare le
allusioni alla jihad di Vick, lo spettacolo regala segni
di una cattiva coscienza più universale, come quando dietro la tela vediamo
soldati che sgozzano donne incinte: chiara allusione al terrorismo islamico.
La tela di Vick – mezzo che riassume sia le punte
positive che alcuni lati discutibili dell’allestimento – svolge ottimamente il
suo lavoro quando si tratta di commentare il monologo di Gurnemanz. Sullo
sfondo scorre buona parte di quello che viene raccontato, compreso
l’“incidente” di Amfortas che va
ad affrontare Klingsor e, distratto dal cedimento alla sensualità, rimedia la
sua ferita (dal quale derivano sofferenza atroce e sbandamento dei cavalieri),
perdendo pure la lancia sacra. Ma quando sulla musica del terzo atto – che dalle rarefazioni
mistiche del venerdì santo passa a evocare con un incedere pesante il funerale
di Titurel – Vick proietta tutti gli orrori del mondo, l’intenzione ideologica
contrasta troppo con la drammaturgia musicale wagneriana. L’opposizione di una
controscena invasiva diventa realtà troppo acerbamente provocatoria non per i
suoi contenuti, ma in primo luogo rispetto al processo dell’assunzione di
identità salvifica di Parsifal, che tutto quanto precede ha portato ormai a
stadio avanzato. In questo senso appare parimenti fuori luogo non il singolo
segno scenico, ma proprio l’ambizione a un totale ribaltamento dei valori: le
fanciulle-fiore col pareo funzionano; i bambini di tutte le etnie
apparentemente morti che giacciono al posto delle fanciulle sul giardino di
Klingsor ormai appassito, e che poi si rianimano grazie a Parsifal come fiori
di speranza per il mondo, sono una delle idee più poetiche, efficace a
illuminare gli assunti di redenzione dell’opera per il tramite degli assunti
specifici della lettura di Vick. Che però poi tornino in scena le stesse
signorine, con lo stesso pareo, e soprattutto che si votino al baby sitting, non distingue più fiore da
fiore. E quando anche Kundry diventa una tata, nel Parsifal ripensato da
Vick, si aggiunge solo un corollario al teorema.
Passando per eccessi di questo tipo nei finali di
atto Vick è efficace, ma purtroppo anche coerente a suo modo! Nel Finale del
primo atto i cavalieri (i marines) bevono il sangue del Graal e poi si tirano
il sangue dal proprio braccio con sofferenza. L’invenzione spettacolare unisce
l’effetto e la sottigliezza teologica rispetto al sincretismo di declinazioni
della cristianità che pullula dietro l’edificio culturale del Parsifal wagneriano. Ma proprio perché
il male e il dolore in Wagner si intrufolano dappertutto, dal sacrificio
eucaristico alla sessualità, si fatica a veder poi risolvere in irenismo laico
senza residui un preteso “messaggio” dell’opera. Nell’universo di Wagner e
della sua estrema opera-mondo l’eros è fratello, se non scaturigine, del male,
e una castità che se la intende con la grazia divina lo redime: piaccia o non
piaccia a Vick, che invece nel finale dell’opera rimuove il Graal e fa di
Parsifal un profeta del dialogo oltre
la religione più che interreligioso.
Il messaggio di Vick è chiaro, ma il Parsifal rilutta ad adattarvisi: forse
il problema di fondo di questa regia, a confronto del Ring, non è che qui manchi la vera ispirazione, ma che in Parsifal l’eroe non muoia, negandosi quel compimento estremo che preclude (in modo
da sempre benefico per l’arte e soprattutto per la musica) lo scioglimento in
tesi di tutti i grumi dialettici. La vittoria dei redentori invece sembra porre
a Vick un’esigenza di “motivazione”. L’unico funerale, quello di Titurel, è non
a caso enfatizzato, perché in questo quadro porta via il male. Presentando il
padre di Amfortas vestito come un mandante internazionale, un colletto bianco
della guerra, la sua morte per Vick non può che essere provvidenziale. Ma a
buttarla troppo in politica o ideologia Wagner ci perde sempre: non solo è
troppo semplificato, ma finisce per essere superato dalla realtà, che spesso va
oltre. Nessuna trovata o provocazione di Vick può reggere il confronto con
Trump che presenta unilateralmente una proposta di pace con la pompa di un
accordo raggiunto.
Nella parte
musicale, il direttore Omer Meir Wellber porta l’orchestra del Massimo a un
buon livello tecnico e a un suono credibile per Wagner, anche se preferisce
(troppo) profilare ogni piccola cellula e si
applica meno a cogliere il profilo di insieme della frase wagneriana. Kundry è raffigurata con la ideologia
semplificata di Vick nel suo transito da donna oscura in niqab (simbolo che
denota fatti precisi e non raccoglie tutti i misteri e le stratificazioni del
personaggio) a Maria Maddalena servizievole e finalmente in comunione con il
suo castissimo redentore, con la seduttrice materna e freudiana relegata a
ponte modulante. Catherine Hunold offre a questo personaggio una resa più
lirica che tagliente, mentre Julian
Hubbard, nel ruolo del titolo per un’indisposizione del tenore titolare, canta
in modo più adeguato al complesso del percorso, ma anche lui è più convincente
in senso poetico che eroico. Si direbbero entrambi ispirati dalle buone
intenzioni della messinscena! John Relyea, interprete di Gurnemanz, offre un’interpretazione profonda
e meditata, all’altezza dell’intero e delle pieghe del suo ruolo di narratore e
protagonista. Buono il resto del cast; da Tómas Tómasson (Amfortas), Alexei Tanovitski (Titurel) e Thomas Gazheli (Klingsor) arrivano anche immedesimazioni
attoriali particolarmente persuasive. Resta discutibile, per l’effetto
acustico, che una parte degli interventi del coro provenga da casse
amplificate: un prezzo eccessivo per vedere lo sfondo del palcoscenico come
ancoraggio visivo al reale. Lunghi applausi e qualche accenno di contestazione
al regista.
Foto di scena a cura di © Rosellina Garbo e © Franco Lannino