Tradizionale ma intrigante:
Traviata a Messina
Santi Calabrò
Parlando di teatro musicale, si classificano spesso le regie in
“tradizionali” e “innovative”; tale distinzione, con tutta la sua chiarezza,
esercita però anche un effetto opacizzante. Il punto è che non spetta alla sola regia di sondare l’apertura interpretativa dei
capolavori operistici più battuti - nei quali, come molti a torto affermano,
musicalmente “non c’è più niente da scoprire” -; può accadere, infatti, che proprio quando il regista non attira
l’attenzione per via di attualizzazioni e di trovate, si colgano meglio delle
sottigliezze nella realizzazione musicale che, anche senza essere di eclatante
rottura, mettono in luce come un mandato di natura ermeneutica appartenga a
tutti gli interpreti in campo. La traviata andata in scena al Teatro
Vittorio Emanuele di Messina - nuova produzione con scena, costumi e regia di
Carlo Antonio De Lucia - pertiene alla categoria degli allestimenti
tradizionali: scena sontuosa con colonne e specchi per la festa in casa di
Violetta, frac e vestiti ottocenteschi, adesione attenta dei movimenti del coro
e della recitazione alla vicenda e alla partitura, comparse e balletti quanto
basta (con apprezzabili coreografie di Sofia Lavinia Amisich). Tutto risulta
ben fatto, pregevole e molto tradizionale: con un filo di déjà vu. Per converso,
sotto alcuni aspetti la parte musicale induce a rimettere in gioco, pur senza
ribaltarle, alcune concezioni ben radicate. Secondo l’opinione dominante, La
traviata è essenzialmente l’opera di Violetta: non solo la
protagonista domina, ma nel personaggio principale si colgono, in misura
inusitata nel percorso di Verdi, una drammaturgia della parola “vera” e una
psicologia “evolutiva”. A corollario di questi assunti forti, si tende a
considerare gli altri ruoli dell’opera come mere funzioni subordinate: a
cominciare da quello del tenore. Alfredo, secondo l’opinione comune, si
regolerebbe sempre sugli impulsi del momento, incarnerebbe la superficialità maschilista e innescherebbe la parabola interiore di Violetta agendo
musicalmente in un modo piuttosto convenzionale: al punto che Julian Budden può segnalare addirittura una nota di falsità quando
nella cabaletta del secondo atto le leggi del “pezzo chiuso” tenorile portano
Alfredo a indossare la corazza dell’eroe. Quello di Alfredo, dunque, non sarebbe
poi un ruolo così difficile: basta cantare bene! Per il tenore
Roberto Iuliano le cose non stanno così.
Prendendosi l’impegno e i rischi di una visione più complessa, Iuliano tende a
introdurre nella parte di Alfredo le nuances che di solito appartengono
ai tenori “di grazia”, pur mantenendo un colore virile. Le frasi vengono
distinte nella dinamica e nella timbrica, i versi di impianto e lessico
apparentemente convenzionali vengono sollecitati sul piano non solo musicale ma
anche testuale, il “Brindisi” è più elegante che spumeggiante, e persino mentre lancia
i soldi addosso a Violetta Iuliano non canta come un Duca di Mantova travestito
da Alfredo. Nel complesso il ruolo subisce una provocazione che sembra
riallacciarlo, con l’aiuto della musica, all’Armand del romanzo di Alexandre
Dumas figlio - La Dame aux camélias - più che a quello dell’omonima pièce teatrale dello stesso autore (che costituisce con
evidenza la fonte diretta di Verdi). Armand, nel romanzo di Dumas, si innamora
di Marguerite nell’orizzonte tipico degli amanti del XIX secolo, sui quali -
come osserva Alain Corbin - gravano sia gli eterni schemi comportamentali
dell’amore cortese che l’antropologia angelica del neoplatonismo
rinascimentale; l’inclinazione e le circostanze fanno virare tuttavia il suo
sentimento in una dimensione del tutto egocentrica, con tendenza a prescindere
dalla realtà. Rendendo più sfaccettato il suo Alfredo, Iuliano
lo riapparenta a questa dialettica romanzesca intessuta di stratificazioni
culturali e tumulti dell’anima, con esiti pregevoli seppure con qualche
esagerazione: a volte l’eccesso di investimento espressivo e di rallentando su
certe parole convenzionali (“misteriosa”, “croce e delizia”) le fa apparire
sovra-determinate rispetto al contesto; molto meglio quando l’interiorizzazione
si esercita per via musicale. Sempre in tema di un’opera tutta costruita
attorno alla protagonista, è difficile pensare alla partitura della Traviata
come al luogo di un’unità autonoma che non solo sorregga la parabola di parole,
note, vicende e sentimenti di Violetta, ma persino determini con una cifra
unitaria il senso dell’insieme. Eppure la prova del direttore Carlo Palleschi
sembra andare in questo senso: di solito apprezziamo Palleschi soprattutto come
un direttore di grande tenuta e affidabilità, ma in
questo Verdi mette qualcosa di più.
Probabilmente nella replica del 18 novembre che abbiamo ascoltato, lasciate
alle spalle le preoccupazioni della “prima”, Palleschi ha liberato ancora di più la sua concezione, che si caratterizza per una preminenza dello slancio
ritmico in tutta l’opera: in un modo quasi febbrile nel primo atto, dove
l’irruzione della vita, di un’altra vita possibile, trasforma l’esistenza della
protagonista; in un modo drammatico nel secondo atto, mentre la vicenda scorre
nella peripezia del sacrificio e nella catastrofe del Finale secondo; e infine
investendo in maniera inattesa ma convincente anche l’atto conclusivo, dove
quella stessa sostanza vitale che Palleschi enfatizza nella realizzazione musicale
svela definitivamente la sua natura di ritmo della morte più che della vita. Dinamica e concertazione si inglobano a questa visione
unitaria ed energetica - pensiamo per esempio al modo con cui i “fremiti” del
testo vengono sottolineati in orchestra mentre Alfredo intona il “Brindisi”, o
alla coinvolgente plasticità dei raddoppi della linea del canto -. E pazienza,
si sarà detto Palleschi, se a volte l’orchestra suona un
po’ troppo forte! Obiettivamente un’orchestra come quella di Messina può corrispondere a tanta sollecitazione, e lo ha fatto in modo ammirevole,
ma tenere un volume costantemente adeguato alle voci mentre il direttore
combatte strenuamente contro ogni tentazione di abbassare la tensione musicale è impresa che richiederebbe compagini più rodate. La
lettura di Palleschi ha peraltro contribuito a risolvere in un buon equilibrio
drammaturgico l’approccio interiorizzato del tenore, mentre sul bastione
principale dell’opera, dove la parola e la musica riscrivono la storia delle
loro connessioni in ordine alla “verità”, anche la
prova di Elvira Fatykhova - protagonista nel ruolo di Violetta - si è ben inserita nel telaio così saldamente
approntato dal direttore. La Fatykhova - soprano di buoni mezzi complessivi ma
dagli acuti non sempre facili e a volte con qualche difficoltà di intonazione, e dal colore apprezzabile ma non tale da incantare di
per sé – mette interamente al servizio del ruolo la sua
vocalità e sa “capire” Violetta nei suoi diversi momenti.
Gli stati d’animo della gioia, del dolore, del conflitto e del sacrificio
trovano la Fatykhova sempre pronta sul piano dell'intenzione e della
drammaturgia. Uno dei momenti migliori è il Finale
del primo atto, quando quelle stesse parole che nel prosieguo dell'opera
gronderanno di autenticità sono oggetto di uno spettacolare ribaltamento di
segno - Violetta riafferma la sua resistenza, ma il canto fuori campo di
Alfredo le arriva come una sferzata e la avvia a cedere -; il modo con cui
anche la recitazione della Fatykhova mima lo sdoppiamento tra “sempre libera” e
la tentazione del vero amore è di rara efficacia realizzativa. Questo finale
singolarissimo, dove il genio di Verdi rappresenta l'inconscio che emerge
prepotente in superficie, mostra tutta l'energia di Violetta: tanta forza e
tanto conflitto saranno poi dispiegati drammaticamente nel duetto con Germont
padre. Nel secondo atto, il carnefice ha qui la voce e la padronanza scenica di
Giuseppe Altomare. Baritono di tecnica sicura, dalla voce profonda ma non
eufonicamente dispiegata, Altomare si cala come un guanto nel fraseggio
compassato e squadrato che caratterizza il suo ruolo, e aiutato da una presenza
scenica adeguata incarna con credibilità il “padre”
nel senso ottocentesco - la figura che domina l’orizzonte di quel secolo sia
dal punto di vista della famiglia che da quello della società civile. Il regista fa cantare Violetta in ginocchio quando soccombe
agli argomenti moralistici di Germont: solo un dettaglio, ma che rivela tutta
l’accortezza della lettura di De Lucia. La prova del coro “Cilea”, diretto da
Bruno Tirotta, è decisamente apprezzabile, a parte qualche
scollamento ritmico con l’orchestra nel primo atto. Di buon livello anche i
comprimari: Sara Palana (Flora), Francesca Canale (Annina), Alberto Crapanzano
(Barone), Alessandro Vargello (Marchese), Maurizio Muscolino (Dottore), Antonio
Mauceri (Giuseppe/Domestico) e Marcello Siclari (Commissario). Davide Scigliano
(Gastone) merita una menzione ulteriore, perché
particolarmente disinvolto in scena. Tutto esaurito e grande successo: un buon
viatico per questa produzione recuperata - era stata prevista e poi rinviata
alcuni mesi fa -, in vista della inaugurazione della nuova stagione (il 30
novembre) con un concerto sinfonico diretto da Vladimir Aschkenazy.
foto © Elisabetta Saija